Immortali mortali Trasformazioni di uomini e dei

(da átopon Vol. V)

 Giuseppe Lampis

Immortali mortali, mortali immortali, viventi nella morte di quelli,
ma, nella vita di quelli, morti
1.

Premessa

Secondo il pensiero tradizionale, gli avvenimenti dei primordi non appartengono ad un tempo perduto ed esaurito; al contrario, essi raggiungono il presente condizionandolo e determinandolo in modo decisivo. Una tale idea vuole indicare che le cose accadute in illo tempore rappresentano il vero senso riposto della situazione dell’uomo presente.

Mosse da questa credenza, varie culture hanno sentito con particolare acutezza il bisogno di cimentarsi nel deciframento delle vicende del principio. Per esse solo la riuscita di una tale impresa potrebbe svelare la configurazione del problema della nostra epoca.

Ares - Opera fotografica di Lorenzo Scaramella
Ares – Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Ritroviamo riformulato un discorso analogo perfino dal pensatore con il quale, per molti versi, si avvia proprio l’età moderna, Agostino, quando afferma che non potremo capire chi veramente siamo fino a che il volto di Dio non si sarà aperto completamente davanti a noi (Conf., X, V).

Alle origini della nostra cultura, per il mondo greco, uno degli avvenimenti dei primordi dal quale prende avvio la condizione dell’umanità attuale consiste in una grande guerra mitica che coinvolge uomini e dei.

Come è noto, si tratta della guerra raccontata nell’Iliade di Omero. In questo monumento dell’epica universale, che presuppone a sua volta un vasto retroterra di saghe cantate dagli aedi, la tradizione viene rimodellata attorno all’idea del primato di Zeus olimpio, in quanto si riconoscono nell’azione da lui intrapresa per il consolidamento di questo primato i presupposti fondamentali della condizione attuale degli uomini.

Attorno a Troia uomini e dei non vennero allo scontro già separati per generi diversi, ma in ciascuno dei due eserciti si fronteggiarono dei alleati con uomini contro altri dei egualmente alleati con altri uomini. Finita la guerra, gli stessi dei e uomini prima apparentati, si troveranno, invece, in sfere nettamente distinte.

Anoi resta di capire cosa abbia voluto significare che ci sia stata un’epoca nella quale entrambi si trovavano così vicini e così alla portata gli uni degli altri da poter duellare su un terreno comune.

Sotto quel mito si è conservata un’idea di grande peso; e cioé che, una volta, l’uomo sebbene mortale – come oggi – godeva già dell’eterna giovinezza e beatitudine.

In quel tempo uomini e dei condividevano un’esistenza integrata e perfetta in un regime di comunicazione, scambio e trasformazione immediatamente reciproci. Successivamente, il dio si sarebbe appropriato in esclusiva di quella situazione privilegiata e avrebbe cosparso di tremende asperità la via per entrarvi.

Eppure l’uomo, proprio perché per sua intrinseca costituzione già da sempre è mortale, si mantiene paradossalmente ancora aperto a quella possibilità. Ma a quale prezzo? Inoltre anche il dio non ha smesso, nonostante la vittoria riportata in illo tempore, di rivestire una natura altrettanto esposta all’eventualità della morte.

Per il Zarathustra di Nietzsche, Dio è morto. Ma questo proclama non può sancire nessun automatico passaggio del regno all’uomo. L’annuncio è di quelli che possono essere dati legittimamente solo dopo e a cose fatte da chi abbia saputo superare (übermensch) l’epocale condizione di decadenza, appropriandosi delle potenzialità liberate da quel rovesciamento.

Proviamo ora a vedere più da vicino di che cosa si tratti.

1. La grande guerra primordiale fra dei ed uomini

La guerra di Troia ha avuto un prologo in cielo, in mente dei.

Si racconta che fu Zeus, con il fine di alleggerire la sua progenitrice – la Terra – del peso del genere umano che era cresciuto troppo, a decidere (Il., I, 5)2 di spingerlo a decimarsi con una guerra intestina. Bisogna però considerare che non si trattava del genere umano dell’età attuale, la penosa età degli uomini di ferro, ma di quel genere di uomini semidivini chiamati eroi che seguirono alla scomparsa della razza di bronzo.

Gli eroi, secondo Esiodo «li uccise la guerra malvagia e la battaglia terribile, alcuni a Tebe dalle sette porte (…) altri poi sulle navi aldilà del grande abisso del mare condotti a Troia, a causa di Elena dalle belle chiome; là il destino di morte li avvolse». Finché, posti da Zeus lontano dai luoghi degli uomini, ai confini della terra «abitano con il cuore lontano da affanni nelle isole dei beati presso Oceano dai gorghi profondi, felici eroi» (Le opere e i giorni, 161-170)3.

Zeus aveva avvertito il profilarsi di una grave minaccia al suo primato e, dimostrandosi supremo depositario di ogni preveggenza e astuzia da reggitore, volle ribadire in un solo colpo il suo ordine anche sugli dei. Tutte le potenze, uomini-eroi e dei, vengono da lui provocate al combattimento; egli impianta l’occasione irrestibile nella quale tutte, seguendo le intime loro predisposizioni (Il., XX, 21 ss.), gli permetteranno di consolidare l’ordine avviato con la cruenta detronizzazione del padre.

La causa remota apparente che scatenò la guerra di Troia si manifesta già durante il banchetto delle nozze tra la dea Tetide e l’uomo dei primordi Peleo e compenetra di sé l’effetto della loro unione. Accadde allora infatti che Eris, non invitata, lanciò fra i convenuti la famosa mela d’oro da attribuire kallistei, alla più bella.

Era stato proprio Zeus a non invitarla, mettendo in moto così la inevitabile sequenza dei fatti.

Achille, figlio di quelle nozze gravide di nefasto futuro, troverà la morte nella fase conclusiva della guerra di Troia, colpito nell’unico punto del corpo4 che era rimasto vulnerabile dopo le pratiche immortalizzanti a cui la madre lo aveva sottoposto.

La freccia fu indirizzata al bersaglio dal signore di ogni freccia che apporta la morte da lontano, Apollo – il costruttore delle mura di Troia –, mediante la mano di Paride.

Il vero nome di questo eroe Troiano, che fin dall’inizio godette della posta in palio nella guerra, Elena la splendida, solare e notturna, in greco suona Alexander, che significa protettore degli uomini. Ed anche per lui ricorre la caratteristica, come per il tebano Edipo, di essere uno di quei figli che dovrebbero morire per far vivere il proprio padre, e che invece – per un fato ineluttabile – ne provocano la morte o direttamente o indirettamente.

Così, troviamo il bellissimo eroe, sopravvissutoall’esposizione sul monte, all’inizio e alla fine, proprio come accade nei piani ben orditi da un potente che tutto sa e vede. In fondo, è nel suo destino che la conquista della città mitica ed il possesso della donna divina si manifestino come la stessa partita.

Riprendendo ciò che dicevamo all’inizio, dobbiamo sottolineare come Zeus sia riuscito ad apprendere il segreto per lui essenziale – il rischio che avrebbe corso a causa del figlio che gli sarebbe nato da Tetide – in quanto la Sapienza in persona lo premiò con i suoi favori e come, altrimenti, sarebbe finito inconsapevole sotto un nuovo sovrano, coinvolto troppo presto, anche egli, nella vicenda cosmica alla quale non possono sottrarsi neanche gli dei.

Se la suprema legge che regola e sottomette ogni essere estende il proprio dominio necessariamente senza limiti di sovranità, allora anche Zeus vi è sottoposto e la sua preveggenza gli sarà servita soltanto a rinviare la sua ora. Al contrario, Zeus sarà invece davvero intramontabile se tale legge altro non è che lui stesso5.

Zeus si conserva perché con la grande guerra riesce a spingere gli eroi lontano dall’esistenza perfetta. Gli eroi da allora in poi potranno riacquistarla solo a prezzo di durissime prove. E già la guerra di Troia rappresenterà o un primo terribile passaggio, necessario ma non sufficiente, o addirittura il simbolo generale dell’entrata nella penosa nuova situazione di distretta; a seguito di essa, gli uomini restano ormai inchiodati ad un destino che equivale alla discesa agli inferi.

Il livello della prova divenne tale che nessun eroe, né fra i vinti né fra i vincitori, potrà più evitare questa morte pericolosa, o già sotto le mura della superba Ilio (città di Priamo e Ecuba-Ecate, e dunque città infera di re inferi), o durante il ritorno o a casa. Tutti in un modo o nell’altro portano i segni della morte su di sé. Perfino i pochissimi che scampando dureranno più a lungo degli altri sono decifrabili come figure di carattere infero. Fra loro, Nestore è il re di Pilo epylai sono le porte degli inferi (Il.,V, 397); Menelao, a parte la stretta associazione con la mutevole notturna sposa selenica, significa colui che attende la gente6; essi dureranno in modo inequivocabilmente anormale, il primo vivendo tre generazioni, il secondo passando nei Campi Elisi divinizzato per influsso di Elena. Odisseo, poi, è un tipico viaggiatore oltremondano, quasi un’altra forma di Ermes; Enea7, lo scampato per eccellenza, finirà i suoi giorni – anche se per una leggenda tarda – nel Latium- Ades approdo dei beati, come se lì avesse conclusivamente riacquistato l’occulto aspetto di daimon, caratteristico degli uomini della razza d’oro. Entrambi, Odisseo e Enea, sopravviveranno più a lungo ma soltanto per continuare a cimentarsi con altre discese, fino alla prova decisiva di ogni viaggio, quella del passaggio attraverso la porta stretta che richiudendosi con fulmineità può schiacciare8.

2. Con la morte degli eroi nasce l’ordine attuale

Guardiamo meglio al significato del fatto che nessun eroe partecipante alla guerra di Troia si salverà dalla morte.

Particolare di un'anfora proveniente da Vulci con Eracle, Cerbero ed Atena (525 a. C. - Parigi, Museo del Louvre)
Particolare di un’anfora proveniente da Vulci con Eracle, Cerbero ed Atena (525 a. C. – Parigi, Museo del Louvre)

Gli uomini non divennero mortali solo allora, dato che lo erano per costituzione fin dalla nascita; ma da allora in poi, essendosi interrotto l’equilibrio precedente, a loro toccherà immancabilmente passare per la città dei morti (vedremo poi come questa simboleggi il mondo attuale). Il prodursi della rottura del regno di comunicazione e scambio tra uomini e dei fa tutt’uno con lo scatenarsi della guerra primordiale. Da quel momento mitico, gli uomini – più precisamente soltanto alcuni di loro, gli eroi – potranno ancora ritornare al regno iniziale se riusciranno a morire nella direzione giusta, superando la ormai inevitabile prova iniziatica del passaggio attraverso la cittadella infernale. Tutti i grandi eroi della Grecia, da Eracle a Teseo, da Giasone a Orfeo, dovranno affrontare la prova della discesa nel mortifero labirinto.

Gli uomini degli inizi, quelli aurei (gli eroi non erano ancora comparsi sulla scena), conoscevano un modo diverso di passare attraverso la morte che li rendeva simili agli dei. In verità essi erano già da sempre nella condizione di beatitudine, di olbioi, e la loro morte non era un’autentica morte, come la loro nascita non pareva una vera nascita. In quel tempo, imperava il Caos, niente nasceva e niente moriva. Dominava una confusione indifferenziata onnicomprensiva ed onniavvolgente. Crono divorava ogni novità ed impediva lo svolgersi della creazione.

Ben altri effetti discendono dall’arrivo degli eroi che introducono il nuovo pericoloso itinerario, incommensurabilmente più arduo e complesso, dell’attraversamento di questo mondo e della frattura che esso rappresenta. Gli eroi furono creati per cimentarsi e riuscire. Con la loro razza, che si sostituiva alla violenza disordinata e mostruosa degli uomini della razza di bronzo, nata dai frassini9, Zeus aveva voluto dare un nuovo ordine al mondo.

Prima degli eroi vigeva la confusione, mentre il loro arrivo introdusse l’ordine. Il modo di morire precedentemente sperimentato da parte delle altre razze non aveva esiti trasformativi e creativi; bisognava allora affrontare la morte in un modo diverso, bisognava essere mortali in un altro modo.

Infatti prima degli eroi, gli uomini d’oro, addormentandosi dopo millenni ancora gio­vani in una morte sui generis, accedevano pianamente alla condizione di beatitudine. Il loro genere di morte equivaleva a una semplice inversione della via da cui inizialmente avevano preso forma, una sorta di spontanea retrocessione per la stessa via dalla quale erano emersi, sbocciando dalla terra10 direttamente come fiori o alberi. Successivamente, gli uomini d’argento a causa della loro tracotante stoltezza furono spediti definitivamente negli inferi; quelli di bronzo, selvaggi, non mangiatori di pane, violenti, si sterminarono a vicenda. Il genere di morte di queste due razze non poté produrre esiti creativi e le confinò in un vicolo cieco.

La razza di ferro, quella che verrà dopo gli eroi, quando sarà il suo turno nascerà già vecchia (nella condizione paradigmaticamente contraria alla indefinita giovinezza della stirpe aurea) e si esaurirà devastata dalla perdita di ogni senso dell’onore reciproco. Sarà questo il destino degli uomini dopo che se ne saranno andati gli eroi, vale a dire una volta che si saranno spogliati delle doti eroiche, irresistibilmente attratti dal baratro.

Come si vede, tutti costoro – quelli delle razze d’argento, di bronzo, di ferro, come anche quelli della razza d’oro – incarnano un’esistenza intrinsecamente squilibrataeincapace di introdurre l’ordine, e la loro maniera di essere mortali finiva per alimentare la confusione.

Si rendeva dunque necessario introdurre un nuovo tipo di mortalità.

I tentativi susseguentisi di dar luogo a diverse razze d’uomini, dopo quella d’oro degli olbioi autosufficienti, lasciano intravvedere la ripetuta ricerca di aggiustare la creazione, inseguendo varie incarnazioni del fuoco guerriero. L’uomo entra infatti in campo nella creazione come una delle trasformazioni del fuoco11; solo quella meglio riuscita saprà inserirsi nel circuito universale, compiendo anche il cammino e la prova più difficile.

La successione mitica delle razze non va intesa in senso piattamente cronologico; il modo antico (esiodeo in particolare) di disporle nel racconto una dopo l’altra non vuole indicare che esse si siano susseguite storicamente. Ognuna di quelle razze rappresenta una dimensione strutturale e archetipica dell’umanità e non sprofonda nel niente una volta sostituita. Bisogna intendere, invece, che la razza che prevale in primo piano riassuma e riformuli a modo suo il potenziale di tutte le altre.

La guerra di Troia fu certamente una prova più radicale e più universale di altre. Dei e eroi partecipano altresì alla caccia del cinghiale di Calidonia e alla spedizione degli Argonauti12, ma soltanto con la guerra di Troia e le vicende degli eroi cantate nell’Iliade e nell’Odissea Zeus emerge come l’unico che ne trae profitto durevole.

I due poemi omerici, pur mettendo in primo piano miti diversi, mantengono entrambi al centro l’intreccio delle simbologie della prova della morte e della prova della conquista della donna divina.

Lo stesso nucleo dell’Achilleide, inglobata nella più ampia Iliade, fa centro proprio sui furori suscitati dalla perdita della preda femminile13.

Nell’Odissea, l’eroe ringiovanisce improvvisamente e sorprendentemente e stravince nella prova finale per la conquista della sposa, nel giorno della festa di Apollo (Od., XXI, 259)14.

Sia Achille sia Odisseo sono eroi della trasformazione. Achille propende all’ambiguità, anche sessuale (i sentimenti per Patroclo), si traveste da ragazza (nel gineceo di Licomede), è mobile come una divinità fluviale15; del resto sua madre possiede in sommo grado l’arte di mutare forma – prima di cedere esausta a Peleo assunse una dopo l’altra quella di fuoco, acqua, leone, serpente, seppia – .Odisseo è l’eroe della maschera per eccellenza, dissimulatore, imbroglione, ermetico; è l’eroe che riesce a tornare nel punto in cui essere ed apparire, vita e racconto – per così dire – si salderanno e si ritroveranno nel proprio centro occupato dalla donna divina, figlia del sole, tessitrice e maga, diurna e notturna. In quel punto, per lui, si fermerà il tempo (Od., XXIII, 243)16.

Achille e Odisseo sono inoltre entrambi legati al cavallo, animale connesso con la simbologia del movimento veloce, viaggiatore multiforme da un mondo all’altro, esemplarmente infero. Achille ha per amici una coppia di cavalli, i poseidonici Xanto e Balio, e sotto vari aspetti sembra quasi appartenere al loro genere. La fama di Odisseo resta indissolubilmente legata con quella del cavallo da lui ingannevolmente usato per penetrare nella mitica fortezza di Troia.

La speciale caratteristica degli eroi risiede nel fatto che alla loro natura appartiene di andare soggetti alla morte pur partecipando al tempo stesso della dignità divina. Gli eroi sono uomini tipicamente mortali; essi hanno una tomba e a loro si celebra il sacrificio nella seconda parte del giorno, quella in cui il sole segue un percorso calante, facendo colare il sangue della vittima (che doveva essere di colore nero e che non veniva consumata, ma intieramente bruciata) verso le viscere della terra da un altare basso chiamato focolare17. Tuttavia la mortalità, lungi dal rappresentare un segno di mediocrità e di decadenza, nel loro caso si stampa come il contrassegno della capacità di affrontare una prova esemplarmente difficile.

I Greci hanno sentito che c’era qualcosa di divino nella forma umana. Essi hanno voluto scorgere un elemento divino in ciò che prende forma equilibrata nella natura e che si apre con proporzione alla luce: in ogni mondo che si apre armoniosamente i Greci hanno visto un dio. C’è chi ha giudicato che tale pensiero fosse dovuto a una loro disposizione per la decadenza (ma piuttosto vedrei annidarsi uno sbilanciamento verso la decadenza nella esaltazione del novum, quando si presenterà, per un’implicita motivazione nichilista che l’idea di novum contiene). A maggior ragione la corporeità perfetta, l’azione concreta perfetta, il gesto pratico creatore sono stati da loro valorizzati come segni di un’alta presenza.

Per un avvenimento dalla portata incalcolabile, dei ed uomini ad un certo punto si sono divisi in campi opposti, pur rimanendo simili, troppo simili per non lasciar trasparire nel codice delle loro rispettive figure (e delle passioni che le animano) un’antica e primitiva coappartenenza18.

Per la mente greca, l’uomo dispone della possibilità di innalzarsi sulla verticale del divino; e per realizzare ciò deve portare al perfezionamento il complesso dei suoi carismi di vivente nel mondo. Più l’uomo esce dall’indistinto infero ed apre mondi più in lui si esprime l’orizzonte di una divinità.

3. Uomini e Titani contro Zeus

Si tramandano anche altri racconti nei quali gli uomini vengono distrutti da Zeus. In occasione di uno dei diluvi scatenati da Zeus, il titano Prometeo insegna a una coppia di uomini a sopravvivere costruendo un’arca. La coppia sbarcata sulla terra ferma, dopo la fine del diluvio nel quale erano stati sommersi tutti gli altri esseri umani, riprodurrà ancora altri simili, attraverso il lancio delle pietre, ossa della terra.

Atena - Opera fotografica di Lorenzo Scaramella
Atena – Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Prometeo ha un nome che significa il preveggente. Dotato della capacità di conosceredi più e prima (prometis), egli in particolare sa la cosa più importante: che anche gli dei muoiono o possono morire, il che è la stessa cosa. Lo ha appreso dalla madre Temi e se ne avvale per aiutare gli uomini; per questo Zeus lo sottopone ad un’atroce punizione19, fino a quando sarà liberato da un eroe, Eracle, le cui storie di partecipazione a pericolosissime prove iniziatiche tratteggiano proprio la struttura di un liberatore di uomini.

Prometeo difensore degli uomini sarebbe, secondo una tradizione, anche loro fratello avendoli plasmati con la terra, che è sua progenitrice. Tutti i Titani appartengono d’altronde alla generazione primordiale di Gea – la terra – e Crono è uno di loro e con i suoi fratelli per alleati scatenerà una guerra decennale contro Zeus per la restaurazione del vecchio ordine.

Inoltre, torna utile ricordare che dietro i Titani20 si tiene l’umanità attuale, anche secondo uno dei miti più densi e fondamentali quale il racconto orfico di Dioniso.

Prometeo, dunque, è alleato degli uomini e sa. Egli sovrabbonda di metis anche se non nella misura della quale si è appropriato Zeus, per il quale Metis è precisamente quella sua sposa primordiale che egli volle inghiottire gravida al fine di evitare che il figlio che stava per nascere (nascerà invece Atena direttamente dalla testa di Zeus) lo rovesciasse. Zeus riesce a garantirsi il perdurare del proprio primato esercitando una particolare capacità di raddoppiarsi androginicamente e di integrarsi con la originale forza della femminilità, cosa che gli conferisce una veggenza che altrimenti non avrebbe.

Non sarà quella l’unica volta in cui egli si rafforzerà mediante simili unioni. Un’altra sua sposa primordiale, la titanide Temi, che forse è un altro nome della sua stessa madre21, lo informerà che il figlio delle eventuali nozze con Tetide lo avrebbe rovesciato dal trono e si sarebbe sostituito a lui nel potere, avvalendosi del possesso di armi più formidabili della sua folgore e del tridente di suo fratello Poseidone22, anch’egli pretendente alla mano di Teti.

Apprendiamo così, scorrendo quelle particolari figure di sillogismo che sono le genealogie degli dei e degli eroi, che Zeus e Prometeo sono cugini, in quanto figli di due Titani fratelli, ma forse – come figli della stessa Temi – potrebbero essere addirittura fratelli.

Chi è Temi? Essa rappresenta l’ordine lecito, la norma giusta, il costume conveniente dei rapporti fra i due sessi23; sue figlie sono le Ore24, “il tempo giusto”, il ritmo ordinato delle stagioni, in quanto guardiane delle porte del cielo stellato (Il.,V,749) da dove iniziano i sentieri della notte e del giorno. Nessuno meglio di lei possiede la nozione di chi sia la sposa adatta e positiva.

Per suo consiglio Zeus e il fratello Poseidone scanseranno le nozze con la desiderata Tetide, pericolosa dea marina, attribuendola in sposa ad un mortale, all’eroe tessalo Peleo25. Achille sarà il frutto di quell’unione celebrata nella grotta del centauro26. E Achille fu destinato in modo esemplare alla morte27 e alla conquista di Troia, che in definitiva, e non soltanto nel suo destino, sono la stessa cosa.

4. Dioniso, il signore della morte, il vero creatore

La nuova strada necessaria ormai per gli uomini verrà indicata da Dioniso, il signore della morte.

Se Zeus dovesse mai venire detronizzato da un eroe – o uomo divino – capace di superare la prova della morte, ciò potrebbe accadere soltanto con Dioniso, anche se gli Orfici hanno voluto intravvedere nel grande dio della maschera, nel fanciullo divino barbuto, reinterpretandolo, un’altra forma del luminoso padre degli dei che impassibile li guarda scorrere davanti a lui28.

Dioniso si presenta come l’unico eroe che ha attraversato la morte29 e è divenuto un dio. Egli viene conosciuto come il sofferente per eccellenza, e per questo viene in aiuto di chi voglia rinascere. Onorato con il canto in occasione del sacrificio del capro (tragos), la tragedia, egli irrompe come il vero signore della morte, quello che ha introdotto la morte positiva, l’uscita verso la trasformazione in una nuova vita alta e beata, la realizzazione dell’ordine, l’imposizione di un senso alla confusione iniziale.

La presenza di una dottrina, secondo la quale l’introduzione della morte imprime senso ad un cosmo inizialmente confuso, rivela nella complessa stratificazione della religione greca una traccia che, almeno per le importanti componenti dei culti eroico e dionisiaco, conduce a visioni caratteristiche dei paleocacciatori.

Tratteggiamo le linee principali di tale dottrina.

In alcuni scenari fortemente arcaici, accanto al creatore primario compare un suo doppio, talora un gemello, di origine oscura e non creato da lui, che si arroga il compito di modificare la sua opera. Il suo intervento si configura o come quello di un concorrente disturbatore o come quello di un cooperatore positivo che riesce a correggere gli errori iniziali.

In questo caso, la prima creazione si presenta così disorientata e sovraccarica (cosa che evidentemente comporta un artefice iniziale inetto e goffo) da esigere una profonda revisione. Lo squilibrio principale a cui porre rimedio riguarda la formazione degli uomini che lasciati a se stessi proliferano oltre misura, finché l’intervento del secondo artefice non aggiusta le cose inventando la morte. Egli stesso reca con sé la morte, e muore per la prima volta.

Il creatore secondario, signore della morte (dato che la morte, per la mente arcaica, è sempre un’uccisione), si uccide da sé o accetta di farsi uccidere.

In questo complesso dottrinale sono associati strettamente insieme tre elementi: il sacrificio violento del secondo creatore, l’avvio dell’ordine cosmico, la morte degli uomini primevi.

Si tratta di credenze che provengono dai fondali della cultura dei grandi cacciatori del paleolitico e che hanno subito svariate riformulazioni. Una, forse quella più fedele al nucleo duro tradizionale, la si ritrova nel complesso sciamanico; un’altra emerge nell’Induismo (Prajâpati) e nel Mazdeismo (Saoshjant); in età recente la vediamo riaffiorare trasfigurata nel cristianesimo. Un’altra perdura nella forma dionisiaca nel mondo greco il cui lascito culturale è fondamentale per la coscienza europea.

In alcuni esiti dualistici degli scenari sopradescritti, il secondo creatore viene addirittura identificato con il diavolo30. Quando si sarà arrivati a tanto, con l’uomo assegnato all’asse ereditario opposto a quello del dio primario e buono, il processo di netta separazione di ogni negatività da ogni positività all’interno del principio divino, inizialmente compatto, avrà raggiunto un punto estremo.

È questo il caso, contrario a quello descritto prima, in cui gli errori del cosmo vengono attribuiti al creatore secondario, che fa la figura del disturbatore dell’opera buona (mentre nello scenario precedente ne è il perfezionatore). In esso si fa avanti la universalissima e ben nota figura del briccone divino o trickster.

Tuttavia proprio i due elementi principali che caratterizzano il trickster (e cioè la sua irresistibile, strutturale propensione al gioco e la sua solidarietà con gli uomini) ci permettono di capire che la sua diabolizzazione – in una con la trasformazione in senso rigidamente negativo e malva­gio dell’uomo – consegue a un tardo processo di camuffamento.

Il primo elemento, la capacità di giocare, rivela una facoltà squisitamente divina e creativa. Notevoli e chiari sono gli esempi che possono corroborare quest’affermazione. Nell’Induismo, i mondi si aprono sui passi di danza di Shiva; l’assoluto gioca manifestandosi nella molteplicità ; a ciò che agli uomini appare come la mutevole illusione della mylîl, il gioco di Dio. Quello che i Greci chiamano aion, il grande anno, la vita che perdura nella varietà degli eventi, il tempo senza fine, per Eraclito è un fanciullo che gioca sulla scacchiera31. Per la sensibilità religiosa greca, la libera creatività del gioco divino appartiene al dio più primitivo di tutti, a quell’onnicomprensivo Caso32che si profila dietro la figura arcaica del briccone Ermes, ladro scopritore delle immense ricchezze giacenti nel creato. corrisponde un rovescio ben potente e reale, la

La solidarietà tra trickster e uomini è ancora più significativa. Le loro figure convergono nel fatto che ambedue patiscono. Ambedue soffrono e muoiono; e soffrire e patire, messi in corrispondenza, si mostrano come il rovescio della capacità di trascorrere, nel gioco cosmico, da una forma all’altra.

Dunque, il secondo creatore, cooperando nella correzione della creazione, rivela in fin dei conti il suo ruolo di creatore decisivo. Egli riesce a mettere ordine nel caos con l’introduzione della sua morte; morendo egli stesso in illo tempore per la prima volta, si fa carico di insegnare quale debba essere la morte vera, quella che – per l’appunto – potrà riuscire a instaurare l’ordine giusto nel cosmo, sottraendolo agli errori e ai pasticci del suo primo autore.

La figura di Dioniso ha molteplici implicanze che non possiamo indagare nei limiti che ci siamo prefissi. Per ora basti ricordare che egli conduce la cavalcata degli spettri e che quella particolare follia di cui è signore segnala e porta con sé un salto radicale di esistenza. In lui si concentrano i poteri di un grande dio della trasformazione iniziatica; ma soprattutto Dioniso si impone quale dio della suprema coincidentia; morente e rinascente, egli può essere l’uno perché è anche l’altro. Con lui ed attraverso lui i morenti della vera morte approdano alla vera rinascita.

Non è necessario indagare se l’identificazione di un Dioniso sicuramente infero con uno Zeus padrone della vita intramontabile sia frutto di una sintesi posteriore alla costituzione delle due figure originali33 e se lo Zeus bambino nato nella grotta di Creta fosse già Dioniso. Che Zeus abbia prodotto l’ordine del cosmo morendo nella forma di Dioniso, o che questi in quanto introduttore dell’ordine sia apparso coincidere con il signore degli dei, non muta la sostanza del messaggio religioso così come si configurò nella sua forma matura: un dio di suprema importanza doveva passare attraverso la vicenda trasformativa della morte per riappropriarsi della condizione iniziale.

5. Anche gli dei muoiono

Che il padre degli dei abbia sentito il bisogno di difendere gelosamente il segreto del suo essere esposto alla possibilità di morire, o di essere rovesciato, risulta ancora più compren­sibile se si pone mente al fatto che nella visione arcaica la morte corrisponde ad una violenta sottrazione di una delle anime vitali da parte di un avversario che accresce la propria potenza a spese del soccombente.

Teseo uccide il Minotauro
Teseo uccide il Minotauro

È opportuno anche precisare che il vero segreto, quello che concerne l’effettiva posta in gioco, non consiste tanto nella notizia di un generico essere esposti alla trasformazione, quanto nel conoscere in anticipo chi e come, quale dio o eroe e con quale arma, abbia il potere di infliggere la perdita della forma essenziale e di assumerla per sé.

Lo strano genere di morte (se così può essere definita) in cui si passava agli inizi consentiva uno scambio reciproco diretto, spontaneo, pacifico e per niente drammatico tra uomini e dei; tuttavia ad un certo punto, come riferiscono i miti, allorché insorse una rivalità per il possesso e la fruizione in esclusiva della condizione divina, si formarono le alleanze che diedero luogo alle schiere contrapposte e si scatenò la guerra.

Il mito risulta molto complesso e a più strati. Si racconta che la guerra ha come fine la conquista della città oltremondana e le nozze con la regina che vi regna; e questo spinge a pensare che il possesso saldo della eterna beatitudine, tipica degli dei, venisse subordinato, da un certo punto in poi, ad una discesa agli inferi tesa ad acquisire la potenza della donna divina che ne occupa il centro.

Dopo una rottura drammatica intervenuta nell’epoca dei primordi in seno alla comunità degli dei (vale a dire nell’intimo stesso della natura di Dio), una parte di quel consesso (o una parte di Dio stesso?) viene costretto ad un percorso molto più accidentato e pericoloso per giungere al godimento stabile di quanto gli apparteneva nella condizione originale. Il mito indica che la parte soccombente nel conflitto dovrà passare, da allora in poi, attraverso la prova di una morte drammatica cercando di scoprirne le potenzialità rigeneratrici.

Lo spirito greco si è curvato con grande impegno sul deciframento del senso della morte, giudicandolo come il problema saliente dell’uomo. Gli uomini, in greco, vengono soprattutto indicati come brotoi, i mortali. Prima ancora che si stabilizzasse il dualismo corpo-anima, l’uomo greco ha individuato nel dramma della physis, ovvero dell’avere origine nascendo nel concreto mondo delle cose visibili, la sostanza del dramma umano ed ha avvertito in modo acuto l’esigenza di verificarne gli sbocchi possibili.

Già per il pensiero arcaico, il ribellarsi alla morte equivaleva a respingere la minaccia di un aggressore determinato in una occasione altrettanto determinata. La morte – che equivale ad una uccisione – comporta sempre un duello-agonia; e anche chi per una volta sarà uscito gloriosamente vittorioso, conservando la propria potenza vitale, non si sottrarrà alla rapina in perpetuo, bensì solo fino a quando manterrà il possesso di un’arma più formidabile di quella del nemico e la capacità di usarla.

La rivelazione che anche gli dei muoiono non indica peraltro qualcosa di automaticamente negativo per loro, ma che essi sono esposti alla possibilità di rientrare nella sfera di un imprevisto dominatore, di un insorto che li sopraffaccia.

In sostanza, gli dei (o il dio del mito che abbiamo citato), nel momento in cui in illo tempore si pose il problema di un nuovo ordine, non vollero morire in modo da favorire il subentro degli uomini-eroi in loro vece nell’esercizio della sovranità e cercarono una conferma del loro deliberato nel cimento risolutivo34. Essi dovettero sentirsi a rischio, di fronte ad una minacciosa tracotante pretesa avanzata da una avversa alleanza guidata dagli uomini-eroi e vollero resistere ad una morte che avrebbe comportato la cessione della loro anima agli uomini, ovvero il trapasso e la sottomissione nella sfera di questi. Nel tempo stesso, per simmetrica conseguenza, gli uomini primigeni non riuscirono ad appropriarsi della natura e condizione degli dei in esclusiva.

Questo mito, con cui in sintesi viene descritto il nucleo centrale misterioso dell’intero scenario, presuppone in tutta evidenza una situazione metafisica di somiglianza e comunicazione tra uomini e dei, nella quale era in atto un reciproco scambio in quanto entrambi non erano ancora separati da quella distanza successivamente divenuta abissale.

L’affermazione che anche gli dei muoiono (da intendersi – lo abbiamo già detto – nel senso che possono morire) non significa che per essi si prepari necessariamente una decadenza analoga a quella degli uomini dell’età attuale dato che, pur essendo soggetti alla trasformazione, tutto dipende dal verso in cui sapranno dirigersi.

Le due sopradescritte direzioni possibili della morte stanno in reciproca perfetta alternativa. Così, al mancato raggiungimento dell’esito che fa acquistare un più intenso statuto esistenziale (il caso tipico di eroi o dei vittoriosi) corrisponderà il confinamento in una condizione involutiva e meschina. Ciò che resta saldo possesso di una parte viene a mancare simmetricamente all’altra.

Eppure, all’inizio, le cose non stavano così e gli uni si trasformavano negli altri all’interno dello stesso circuito congeniale di esistenza integrata e beata. È la scissione successiva a aver stabilito che beatitudine e decadenza ricadono su due versanti rispettivamente incompatibili, tanto che ormai rimane difficile e paradossale pensare a quella dei primordi come ad una morte effettiva, chiusi come siamo in un’epoca nella quale la morte si impone con un altro volto.

Capire il senso dell’accaduto è una delle grandi questioni della storia della religione. Mircea Eliade ha detto una volta35 che la religione nasce solo dopo che l’essere divino primordiale si è eclissato allontanandosi in una sfera di indifferenza irraggiungibile dagli uomini. A partire da allora, il cielo si popola di entità sempre meno impassibili e sempre più dinamiche, le quali in definitiva configurano il tentativo di una ricostruzione progressiva della comunione con il sacro.

Nel quadro religioso greco si considera la possibilità di un tipo di morte che non equivale affatto alla decadenza genericamente irreversibile comune agli uomini attuali, né tantomeno alla scomparsa nel baratro del niente. Del resto, in quel quadro nessuna morte e nessuna uscita potrà mai comportare lo scavalcamento dei confini della realtà ; tali confini restano invalicabili per un immodificabile decreto e al loro interno, di conseguenza, potrà darsi soltanto passaggio da un essere a un altro essere.

Nel tempo stesso, tuttavia, nell’affermazione che anche gli dei muoiono gli uomini non debbono leggere nessun automatismo in loro favore. Al contrario, gli dei muoiono soltanto se un ribelle dotato della potenza necessaria insorga contro di loro e si appropri della loro natura subordinandola a sé. Una tale sopraffazione si conseguirebbe soltanto attraverso una morte che faccia rinascere come dei.

Una morte capace di trasformare nella condizione privilegiata degli dei, deve necessariamente essere immaginata come di tipo qualitativamente non banale, paragonabile ad un’uscita verso l’alto – per così dire – e non verso il basso, ovvero ad un’uscita senz’altro, effettiva e non illusoria, e non ad una fissazione avvitata su sé stessa36.

Per conseguire una tale morte occorre disporre di doti eccezionali e di un aiuto di particolare efficacia per trovare la strada giusta e vincere i guardiani delle porte da attraversare. Occorrono una preparazione e una disposizione non comuni, che si acquistano nell’esistenza mondana – sbilanciata verso la rigidità e la depressione – soltanto a prezzo di una rigorosa ascesi iniziatica.

Riuscire a morire nel senso autenticamente trasformativo equivale invece a disincagliarsi dalla ripetizione banale e a introdursi nel percorso della generazione creativa delle forme, a sciogliersi per divenire altro, suscitando le formidabili potenze del fuoco interiore dell’eroe. Ma chi è l’eroe?

6. La paura della morte

La possente riflessione vedica sul tema del sacrificio era pervenuta alla tesi che soltanto l’uomo può portare alla perfezione l’azione sacrificale. Egli soltanto può saldarne l’interna potenza generativa, in quanto è l’unico che può fungere insieme e da sacrificatore e da vittima.

Le caratteristiche essenziali dell’uomo – per i libri Brhâmana – lo dispongono all’esercizio del sacrificio perfetto, nel quale si ripete l’azione originale della creazione del cosmo. Tale creazione consistette nell’autofrantumazione di Prajâpati, il primo uomo, la persona primordiale, il principio metafisico trasformato in soggetto attivo. Egli si scalda, arroventandosi, suda e dai suoi effluvi nasce il mondo.

Dalla proiezione di Prajâpati nella molteplicità scaturisce l’universo manifestato. Il morire, per i Veda, si spiega come una trasformazione che renda vittime, offerte disponibili ad essere sciolte nella infinita esplicitazione delle potenze possedute. Per questo alto motivo, il morire appartiene tipicamente al dio-uomo iniziale. L’uomo superiore conosce il nesso mistico che salda l’uccisione alla creazione: egli sa uccidere, innanzitutto perché sa che a dover essere ucciso è l’uomo stesso, se stesso in definitiva.

Il sacrificio si pone come la riattualizzazione dell’uccisione perfetta, l’unica a avere potere creativo, quella che ha per inizio e termine l’uomo. La ricomposizione del principio, scisso in illo tempore, attraverso il perfezionamento ed il compimento dell’uomo nel sacrificio di sé, fa del problema dell’uomo il punto critico dell’intera manifestazione cosmica. Abbiamo già visto come venga interpretato nella cultura greca il valore di fuoco incarnato dall’uomo eroico.

Su questo sfondo ben si comprende in quali sensi il morire vero sia cosa da dei. In primo luogo – per il senso riposto e più vero – perché esso appartiene alla dignità del primo grande uomo divino; in secondo luogo perché gli dei generati con il cosmo ne seguono il destino37. Dato che il cosmo si consuma, tanto da aver bisogno di venire periodicamente rigenerato, anche gli dei perdono la potenza e debbono ritrovarla nell’azione trasformativa perfetta che ha la forza originaria di instaurarli. Tale azione perfetta, come abbiamo ormai più volte sottolineato, si realizza nel sacrificio.

Così, nella conoscenza della mortalità di dio si ritrova implicita la spiegazione del senso profondo della mortalità dell’uomo. E dalla riappropriazione di questo senso profondo l’uomo si riappropria di dio, in uno scambio drammatico.

Quando l’uomo invecchia e decade, a quale avvenimento primordiale si deve risalire per spiegarci un simile destino? Per quale ragione quell’essere di statuto divino, quel dio che era l’uomo38 subisce tale sorte?

Il fatto è che se ogni morto è comunque un ucciso, quel dio che l’uomo attuale era nei primordi deve essere stato aggredito da un altro dio; e se un dio ha compiuto violenza su un altro e ne ha provocato la decadenza, vuol dire che una frattura metafisica si è prodotta nella natura profonda inizialmente unitaria della stessa divinità.

La cosiddetta morte naturale genericamente comune agli uomini attuali, quella a cui si scende attraverso la perdita di potenza e la malattia, non solo non è cosa divina ma nemmeno è vera morte perché, invece di trasformare, fissa e prolunga indefinitivamente nello stesso stato.

Dal canto suo, la morte vera equivale così tanto ad un privilegio divino che, lungi dal rappresentare decadenza e affievolimento, apre il passaggio ad altri livelli di vita, all’accrescimento e all’intensificazione della propria natura.

In sintesi, secondo le interpretazioni e le visioni tradizionali che abbiamo richiamato, si danno due specie di morte: l’una accrescitiva, l’altra diminuitiva, la prima di carattere divino, la seconda no. L’uomo che sa morire si fa dio, l’uomo che non sa morire decade. In questo secondo caso, la morte assume uno speciale connotato etico e viene intesa come il culmine del male, cosicché per l’uomo il problema etico consiste nell’evitare di morire dal verso sbagliato e di riuscire a morire nella direzione giusta.

All’inizio del viaggio l’uomo sente la paura della morte.

La paura della morte costituisce uno dei segnali più caratteristici della condizione ontologica dell’uomo, immerso nel rischio e nella minaccia. La consapevolezza più o meno lucida e più o meno mediata di questa situazione intimamente costitutiva della realtà degli uomini non può non accompagnarsi all’angoscia. L’allarme, che acutamente in primo piano o sordamente sullo sfondo accompagna il situarsi dell’uomo attuale nel mondo, segnala l’incombere di un rischio e di un pericolo radicali.

Se intendiamo la paura della morte come il segnale di reazione alla minaccia della trasformazione in un altro che assorba nel suo dominio, dobbiamo altresì riconoscere che essa potrà riguardare non soltanto il singolo individuo umano ma anche l’intero popolo e l’intera propria cultura. Di conseguenza, l’acutezza di tale paura (e cioè l’ampiezza del problema della morte) risulterà direttamente propor­zionale alla inadeguatezza della posizione dalla quale la si affronterà. Quanto più debole ed insufficiente sarà l’angolo prospettico dal quale si riceverà la minaccia, tanto più essa finirà per apparire insopportabilmente ingigantita e terrificante.

7. Gli alleati degli uomini e il mandala

Dopo la prima grande frattura dei primordi, da allora in poi, rivestono importanza decisiva la porta e la direzione da cui si entra nella trasformazione.

Il giusto accesso e il giusto verso fanno incontrare gli alleati necessari e permettono di affrontare gli ostacoli dalla parte suscettibile di essere superata. Il processo non può venir affrontato con ragionevoli speranze di riuscita senza poter contare sull’aiuto di forze di superiore livello, che vengano incontro per via, e senza l’alleanza di facoltà più alte39, la cui presenza, non scontata, deve essere meritata e acquisita mediante procedure adeguate40.

Un caso particolarmente rilevante di conquista di un alleato potentissimo è quello rappresentato da Giacobbe. Il grande patriarca mediante l’incubazione sulla pietra sacra riesce a convocare Jahvè che gli promette il dominio (Gen 28,10-22); inoltre ingaggia con lui una terribile lotta notturna uscendone vittorioso (Gen 32, 22-32) e con il nome mutato in quello, che ne sanziona il nuovo stato, di Israel, traducibile in perché hai combattuto un Elohim e hai vinto. Egli stesso potrà dichiarare di aver superato (subendone una lussazione dell’anca) la prova dell’incontro faccia a faccia con il dio. Emerge dalla storia di Giacobbe che, in forza dei suoi carismi e della padronanza della ritualità tradizionale, egli affronta a partire dalla piena esperienza della sua condizione umana una prova decisiva superando la quale costringe il dio ad essergli alleato e garante.

La storia di Giacobbe aiuta altresì a chiarire un risvolto fondamentale della potenza sviluppabile da taluni itinerari esistenziali umani: l’uomo superiore sa riconoscere il luogo atto all’incontro con dio, per convocarlo e trattenerlo vittoriosamente. Un tale uomo sa consacrare lo spazio, e questo dal canto suo si rivela sacro proprio nel caso in cui venga abitato e scelto da colui che sa interpretare il rapporto con cielo e terra.

I popoli arcaici traducono l’ordine cosmico, di cui intendono essere interpreti e portatori, nella struttura gerarchica della loro comunità, la quale riesce così a disporsi come la vivente attuazione del sacro. Questa gerarchia, inoltre, deve trovare esatta trascrizione nell’articolazione del luogo abitato.

Le culture tradizionali hanno considerato della massima importanza la scelta del luogo fisico in cui affrontare correttamente il problema del destino. Per tutte, l’abitare assume sempre un alto valore metafisico poiché stimano di fondamentale importanza che nel luogo abitato sia registrata l’alleanza e l’armonia con le grandi forze cosmiche; l’accampamento, già presso i nomadi cacciatori, e la città presso i sedentari agricoltori devono essere una imago mundi idonea a richiamare e conservare la presenza delle potenze dell’origine, dei, antenati e demoni. Secondo questa ideologia, l’organizzazione del luogo da abitare fa parte integrante della disciplina tesa a acquisire le potenze necessarie a affrontare il problema dall’angolo prospettico giusto41.

Da Babilonia a Roma, da Pechino a Bagdad, la costruzione della città deve rispondere a una mappa ideale, nella quale possano essere legittimamente convocate le potenze mistiche che governano le strutture profonde del cosmo. Lo stesso palazzo del re doveva costituirne il nucleo paradigmatico. Reggia e città dovevano rispondere ad un disegno sacro, al fine di rappresentare un’autentica ripetizione dei rapporti tra le grandi forze della realtà e dei percorsi per incontrarle.

Come è noto, tale disegno si ritrova nel mandala42 e anche nel labirinto. La costruzione della città perfetta, eminente arte da re, comporta scienza dei segreti del mondo, capacità di comunicare con essi e di adoperarli. Essa deve garantire il corretto orientamento dei suoi abitanti nelle direzioni giuste. Se nella città si realizza un mandala, come nessuno che interroghi e percorra in modo sbagliato un mandala o che addirittura lo abbia disegnato scorrettamente potrà risolvere i problemi in esso rappresentati, così ugualmente nessuno che abiti una città sbagliata potrà salvarsi.

Abitare la città ben costruita dispone al raggiungimento del centro, da dove si può tornare a incontrare e vincolare gli dei. Nella pratica del mandala, il rito si conclude con l’insediamento al centro, sul trono regale-divino, dell’iniziato che lo esegue.

Anche nel labirinto, che riproduce l’archetipo di una caverna e quindi di un accesso oscuro o di una porta stretta, occorre imboccare le porte giuste e procedere nella sequenza corretta dei coridoi – le cui sinuose spirali ocultano la meta – orientandosi per l’avvicinamento al centro secondo l’ordine obbligato dal piano dell’architetto. Gli uomini che riuscirono a varcare le cinte murarie di Troia – innalzate da potenti architetti divini, Poseidone ed Apollo – furono eroi alleati con dei e demoni, ostacolati da altri eroi alleati con altri dei e demoni. Essi andarono incontro ad altre prove ancora, la principale delle quali consisteva nel ritrovare la propria città, il proprio luogo, il centro di ogni ritorno. Per affrontare tali prove nel verso giusto dovettero tuttavia iniziare dalla discesa ad inferos.

La simbologia del labirinto-caverna, o del mandala, indica nelle sue grandi linee che per poter uscire dalle strettoie dell’esistenza bisogna percorrerle tutte coraggiosamente fino in fondo; soltanto dopo averne attraversato tutti i gradi si sarà raggiunto il punto di svolta verso il ritorno. Soltanto dopo aver toccato il fondo dei meandri labirintici, o il centro del palazzo mandalico, il nuovo angolo visuale si rivelerà come una risolutiva via di controllo del mondo in cui si vive e di uscita dalla condizione di soggiacimento adesso.

La prova non deve essere un esercizio vuoto e formale. Quel simbolo manifesta la struttura riposta ma reale della vita attuale degli uomini. Finché il labirinto rimane solo un simbolo astratto, la prova non può riuscire; l’iniziando deve saper richiamare nella sua esistenza concreta i suoi demoni e decifrare i suoi meandri nel verso a loro appropriato. La prova impone di ubbidire fino in fondo a un condizionamento, scoprendolo nelle forme assunte nella attualità ; il Troiae lusus, la gara troiana (En.,V, 545), ha l’aspetto esterno di un torneo di giovani cavalieri, eppure nella cavalcata lungo il percorso rituale fitto di circonvoluzioni e di andirivieni si rivela e interpreta il problema presente della comunità.

Dopo gli avvenimenti dei primordi, per un fato ineluttabile, la vita attuale è ormai la condizione dalla quale ripartire. Tale condizione viene interpretata nei termini di un difficile percorso infero, ormai obbligato per l’umanità gravata dell’inevitabile peso della sua tipica morte. La nostra epoca si svolge da tempo nella cittadella infernale; già da tempo siamo legati nella caverna, nel cuore della montagna del mondo.

8. Conclusione

Giunti a questo punto, si può meglio capire cosa voglia significare l’idea che la vera prova iniziatica consiste nel divenir capaci di morire dal verso giusto. Questo si è via via chiarito come un saper andare fino in fondo nel verso aperto dalla vita dell’età presente, secondo la sua effettiva modalità. Senza arrendersi a una fuga irresponsabile, l’eroe deve affrontare il problema così come si pone dopo la rottura dei primordi, nella vita attuale. Il centro da conquistare è nascosto da qualche parte qui, in essa; l’altro mondo costituisce la trama nascosta di questo e dietro l’effimero di questo sta sottesa una struttura eterna.

Il deliberato di Zeus ha inaugurato un’età stretta e mediocre, dalla quale gli uomini non possono uscire semplicemente voltandosi indietro, bensì soltanto prendendo atto del nuovo destino. Il dovere della ubbidienza alle nuove regole non legittima però alcun fatalismo ed impone il compito impegnativo di decifrare e attraversare il mondo quale effettivamente è oggi.

La posta della prova è altissima e fondamentale: restare in una condizione servile e meccanica o uscirne e liberarsi alla vita. Come afferma Eraclito, «polemosdi tutte le cose è padre, di tutto poi è re; e gli uni manifesta come dei, gli altri invece come uomini; gli uni fa esistere come schiavi, gli altri invece come liberi»43.

Il vero uomo, per la cultura greca nasce solo a seguito di una seconda nascita. La prima nascita, quella da donna, mette fuori un essere ctonio legato alle profondità indistinte delle viscere infere della terra. Si tratta di un essere forse soddisfatto, ma ancora indeterminato e senza forma, il contrario dell’ideale etico ed estetico – la areté – della cultura greca. Per essa il vero uomo deve rinascere dal mistero di un lungo itinerario iniziatico, attraverso l’esperienza del dolore e la vittoria sulla morte. A quel punto egli non sarà più fatto di terra; sarà un daimon divino di luce e di fuoco, apritore di mondi. Sarà il viaggiatore che non solo scopre nuovi orizzonti già dati, ma che entra nel mondo egli stesso come un orizzonte che si dischiude.

Questa ideologia apparenta anche i Greci a complessi dottrinali fortemente primitivi, ben noti in sede etnologica, sul cui vertiginoso scenario possiamo, per ora, soltanto affacciarci.

Giuseppe Lampis


NOTE:

1Eraclito, fr. 62, trad. G. Colli, La sapienza greca, vol. III, Eraclito, Milano 1980, p. 55.

2) andava a compimento il deliberato di Zeus.

3) Nelle isole dei beati gli eroi soggiornano da olbioi, godendo cioè di una floridezza che estingue ogni desiderio. Quelle isole sono un simbolo polare e l’averle raggiunte indica che gli eroi si sono integrati dopo le prove tremende con il proprio centro. Talora esse vengono anche collocate ad occidente, anche se ciò non modifica il valore polare del simbolo perché, quale residenza finale degli antenati, continuano a rappresentare il centro verso cui muove ogni vero ritorno. Inoltre, ad occidente (per En., VIII, 325, nel Lazio favoloso dei primordi) viene collocato il regno di Crono-Saturno, signore dell’età dell’oro paradisiaca. Egli, dopo la detronizzazione ad opera del figlio, si sarebbe nascosto laggiù ed ivi accoglierebbe insieme con gli uomini della razza d’oro gli eroi divenuti demoni protettori degli uomini attuali. Latium, secondo la tesi accolta dall’Eneide, verrebbe proprio da latere – nascondersi –, di modo che indicherebbe in definitiva la stessa realtà che Ades, vale a dire il campo dell’invisibile.

Dallo stesso racconto di Esiodo, risulterebbe che l’accesso alla condizione aurea sia il premio ed il coro­namento della parabola eroica. Il nucleo del mitologhema indica che l’archetipo dell’uomo perfetto è proprio l’eroe che ha superato quella prova.

4) Nel ciclo eroico tebano, il protagonista sembra portare un destino analogo addirittura incorporato nel nome. Oidipous infatti vuol dire piedi gonfi; ciò sarebbe dovuto ai legacci con i quali fu trasportato sul monte su cui doveva essere esposto per ordine del padre-re, il quale si riproponeva così di evitare che si realizzasse la profezia che lo aveva avvertito che sarebbe stato rovesciato e ucciso dal figlio. Per Kà roly Kerényi – Die Heroen der Griechen, Zürich 1958, tr. it. Gli eroi della Grecia, Milano 1963, p. 96 – si tratterebbe invece di un nome allusivo alla caratteristica fallica di uno dei Dattili, nani ingegnosi nati dalla Grande madre terra.

5) Orph. fragm. 21a (Kern).

In proposito si può altresì prendere in considerazione il fr. 32 di Eraclito: «una cosa sola, la sapienza, non vuole e vuole essere chiamata con il nome di Zeus», (tr. G.Colli, op. cit.); ovvero, nella versione di Eugen Fink (M. Heidegger, E. FinkHeraklit. Seminar Wintersemester 1966/1967, Frankfurt am Main 1970; tr. franc., Héraclite. Séminaire du semestre d’hiver 1966-1967, Paris 1973, p.145): …l’un, seul sage, ne veut pas et veut pourtant etre appelé du nom de Zeus.

6) KerényiGli eroiop. cit., p. 306.

7) La potentissima gens Julia, dalla quale proviene Cesare, si attribuiva di discendere misticamente – attraverso Enea ­ da Venere-Aphrodite, dea che lungi dal rappresentare la bellezza estetica incarnava piuttosto la forza fascinosa e trascinante della natura generatrice di realtà. Insomma, i Romani – anche in questo caso – hanno voluto affermare che nessuna città può essere fondata per esercitare l’imperium, senza l’intervento di una razza eroica che si sia misurata nella lotta primordiale, avendo come alleate le divinità più potenti.

8) Quali le isole Simplegadi, ai confini del mondo, che cozzano l’una contro l’altra; o le rupi erranti, di Scilla e Cariddi, secondo le parole di Circe riferite da Odisseo prima ai Feaci e poi alla sposa ritrovata – rispettivamente in Od., XII, 61 e XXIII, 327: planktai – . Il passaggio tra le rocce erranti era stato fino ad allora consentito solo alle colombe di Zeus che portano dall’aldilà l’ambrosia, bevanda d’ immortalità.

9) Il frassino è una specie di quercia montana, polare, iperborea. Lo Yggdrasil, il germanico asse dei mondi, è un frassino. Le potenze dei frassini, le ninfe Meliadi, nascono senza madre direttamente dal sangue di Urano mutilato.

La stirpe nata dai frassini viene definita letteralmente (EsiodoLe opere e i giorni, vv. 145-146) «come quella che non mangia il pane»; con tale attributo si allude in tutta evidenza all’ethos tipico della civiltà dei grandi cacciatori, che viene indicato sullo sfondo come un’alternativa radicale alla cultura olimpica, mentre invece per molti versi trapassa e ancora si mantiene ben in vista nei valori eroici: si pensi al furore guerriero e al culto del vigore fisico tipico della razza bronzea. Va notato infine che la stessa potenza del frassino sembra rappresentare un lascito iniziatico: la lancia di Achille, dono di nozze fatto a suo padre dal centauro Chirone, associato ad un dio tessalo primordiale successivamente reinterpretato come Crono ippomorfo, è fatta di frassino. Altri doni fatti a Peleo – da parte di Poseidone – e poi passati ad Achille saranno i cavalli Balio e Xanto.

Le nozze di Peleo e Tetide, insieme con quelle di Cadmo ed Armonia, sono gli unici casi in cui gli dei intervengono recando doni. Tutte queste nozze riguardano l’origine dell’uomo dei primordi.

10) Cfr. il racconto dell’età di Crono nel Politico di Platone, 269C-273E.

11) Károly KerényiUrmensch und Mysterium, in «Eranos-Jahrbuch 1947», Zürich 1948; tr. it., L’uomo dei primordi e i misteri, in Miti e misteri, Torino 1979, pp. 369-396.

Si veda anche il mito della formazione delle specie animali mortali (PlatoneProtagora, 320 D) mediante “mescolanza di terra e di fuoco”.

La forza mediatrice del fuoco è nota: ogni cosa che vi è gettata dentro passa in altro stato, in particolare dal visibile all’invisibile.

12) Costituisce il modello vicino degli altri viaggi eroici. Il modello più lontano è l’avventura del sumero Gilgamesh. Ma l’archetipo del viaggio, che per essere inteso come tale deve attraversare i diversi mondi, postula l’ideologia dei non stanziali e trova una delle sue espressioni più arcaiche e caratteristiche nel complesso sciamanico.

Argos significa sia bianco sia veloce, in altri termini luminoso e rapido come il fulmine. Argò appare pertanto come una nave di luce, in stretto rapporto con il viaggio del sole ­ altrove pensato come un caldaio di fuoco – lungo l’eterno circolo in cui si congiungono visibile ed invisibile attraverso l’archetipica porta stretta: cfr. Paula PhilippsonThessalische Mythologie, Zürich 1944; tr. it., Origini e forme del mito greco, Torino 1983, p. 265 e ss.

13) Sotto altri cieli, nell’India del tantrismo ad esempio, ed in altre epoche, presso la cavalleria europea medioevale, ricorrerà un’analoga equivalenza simbolica.

14) In proposito cfr. anche Titus BurckhardtIl ritorno di Ulisse, in La maschera sacra; tr. it. Milano 1988.

15) Kerényi, Gli eroiop. cit., p. 299.

16) Atena fermerà per lui la notte.

17) Angelo BrelichGli eroi greci, Roma 1958, p. 9. La monografia di Brelich contiene una interpretazione delle ragioni per le quali il culto funebre è tipico degli eroi.

L’autore, esaminato e lasciato cadere il criterio di una dipendenza specifica dei miti eroici dal culto, preferisce spiegare invece la religione degli eroi come un organico complesso di temi e motivi universali (tanto universali da essere addirittura non solo religiosi e non solo ristretti alla cultura greca) raccolto attorno a figure plasticamente sbalzate. Tali figure sarebbero dovute alla caratteristica propensione greca all’esaltazione del modello soggettivo umano.

L’eroe sarebbe pertanto una forma tipica, prodotta dall’antropomorfismo greco, nella quale vengono pensati temi universali riguardanti la condizione umana.

Il suo pattern viene disegnato attraverso una sintetica rassegna morfologica, condotta su un materiale altrimenti sterminato: si tratta di un personaggio che intrattiene un rapporto essenziale con la morte e la precarietà, mostruoso e trasgressivo, antenato e fondatore di attività umane esemplari.

Le figure eroiche sarebbero emerse progressivamente, specializzandosi nella fondazione della condizione umana, da un fondo precedentemente indifferenziato comprensivo di entità mitiche affini responsabili della cosmogonia e dell’ordine attuale. Nell’ambito di una concomitante sistemazione dei ranghi divini (è presso i Greci che si raggiunge la massima approssimazione a un politeismo compiuto), il culto degli antenati – componente essenziale degli strati profondi della religione greca preistorica – avrebbe promosso l’idea che le entità venerate nel sepolcro appartenessero a un tempo omogeneo con quello dei vivi, per quanto lontano. Con lo stesso processo, altre entità si sarebbero andate collocando in un tempo eterogeneo e separato a garanzia della immutabilità e della stabilità dell’ordine attuale, senza tuttavia che si perdessero completamente le tracce della loro provenienza dall’antico fondo comune.

Riteniamo molto significativo che uno studioso di impostazione immanentista, talora incline a una sorta di neo-evemerismo storicizzante, abbia colto bene il nesso strutturale tra dei e uomini eroici.

18) Lo stesso olimpizzante Esiodo (Le opere e i giorni, v. 108) afferma che dei ed uomini mortali hanno la medesima origine (da Gea, la terra). Anche Platone – Protagora, 322 A – parla di comune nascita e consanguineità tra gli uomini e il dio (o il divino)

19) Anche Tantalo conosce i segreti degli dei e ne parla per vanagloria, almeno così riferiscono i suoi detrattori. Tuttavia non devono essere stati solo banali conversari quelli da lui colti durante lo strano banchetto al quale aveva invitato gli dei per saggiarne la onniscienza. A quella tavola egli servì le carni del figlio Pelope (trattato come Dioniso, dunque), ma gli dei non ne mangiarono perché si accorsero dell’inganno, tranne Demetra che fece a tempo a consumare una spalla del fanciullo. La dea doveva essere evidentemente più incline, in contrasto con i suoi simili, a stabilire nessi sostanziali con gli uomini ed a consentire che si immortalizzassero partecipando alla ben nota procedura dello smembramento-cottura. In altra occasione Zeus divorò, invece, senza avvedersi del trucco (come a suo tempo era accaduto a suo padre crono, ingozzato con una pietra in sostituzione del figlio che poi lo avrebbe detronizzato), ciò che gli aveva imbandito Prometeo, o accettò di farlo (EsiodoTeogonia, 550-2) per avere poi un motivo di vendetta, contro il Titano e contro gli uomini, sì da incatenarlo alla montagna caucasica. AncheTantalo fu attaccato ad una pietra. Sia Tantalo sia Prometeo hanno comunque a che fare con l’istituzione del sacrificio agli dei e i loro segreti. In particolare anche Tantalo, che è un figlio di Zeus (e di Pluto, l’abbondanza degli inferi), ed anche un antenato dei brotoi – mortali – può essere stato un candidato alla successione al trono. La regolazione dei rapporti nell’accesso al nutrimento da parte degli uomini-eroi e degli dei sembra essere una delle chiavi per decifrare il famoso segreto. Quanto l’eroe Tantalo sia strutturalmente connesso con la questione dell’accesso al nutrimento immortale e paradisiaco è segnalato dalle caratteristiche del suo supplizio di perdente, che indica a contrariis ciò di cui godono i vincenti. Del resto pare che, insieme con i segreti, egli rubasse agli dei proprio l’ambrosia e il nettare. Non si dimentichi infine che, secondo l’inno a Demetra, la dea infuriata per la perdita della sua kore minaccia gli dei di sterminio, disseccando la terra e sottraendo in tal modo la materia prima delle offerte.

In conclusione, ciò che emerge è che gli dei si accaniscono a rovesciare coloro i quali dimostrano di possedere la chiave segreta del sacrificio ovvero del loro nutrimento. Per il riformatore Zarathustra dovranno essere evitati i sacrifici ai daeva e nutriti solo gli ahura; in India sarà il contrario. La designazione sanscrita degli dei (deva) si trasformò nella religione iranica nel titolo dei demoni maligni (daeva). Viceversa, il titolo iranico dell’essere supremo (ahura), in India sta a indicare un gruppo di dei più antichi (asura) nemici degli dei-deva. In Iran, evidentemente, gli dei si sono trasformati in demoni.

20) In questo caso essi figurano come maschere esemplari di morti-antenati, con le loro sbiancate facce di titanos, gesso o calce che fosse.

Non tutti i fratelli appoggiano Crono durante la titanomachia. Oceano e l’oceanina Stige, Iperione, Temi, Mnemosine stanno con Zeus. Anche Prometeo (cfr. EschiloPrometeo incatenato) appare essersi schierato dalla parte di Zeus perché ha appreso dalla madre Temi, altro nome della Terra, che non sarà la violenza a prevalere bensì l’astuzia. Ciò non gli impedisce di soffrire egualmente la vendetta di Zeus, che non gli perdona la ostinata difesa degli uomini. Il fatto che Zeus fosse determinato a sterminare gli uomini ­ determinazione contro cui il titano si oppose ­ adombra che li avesse percepiti come nemici nonostante le parti prese da Prometeo nella guerra. Di conseguenza, l’opera civilizzatrice del loro protettore, il trickster Prometeo, viene giudicata alla stregua di una creazione arrogantemente antagonista e insurrezionale.

Fra i titani che si schierano con Zeus compare Capricorno (Aigokeros). Secondo Epimenide (fr. 24), egli avrebbe inventato uno strumento, derivato da una conchiglia, con il cui suono terrorizzò gli avversari: tale strumento era detto panico.

La presenza risolutiva di Capricorno nell’esercito di Zeus accende un altro segnale del senso riposto e esoterico del combattimento, che diviene decifrabile come uno scontro tra le potenze (titaniche) del cosmo materiale e quelle di un livello superiore o extramondano.

Nel simbolismo zodiacale, il Capricorno, che è la costellazione che domina il cielo del solstizio d’inverno, corrisponde al polo, estremità alta dell’asse cosmico, e pertanto a quella uscita dal ciclo delle esistenze mutevoli del cosmo delle apparenze che nel Veda è chiamata “porta degli dei” (dêva-yna, e cfr. René Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Paris 1962; tr. it. Simboli della Scienza sacra, Milano 1975; pp. 306 e ss.).

Questo significato esoterico del Capricorno trova riscontro nella simbologia del proemio del poema di Parmenide, in primo luogo nella “porta dei sentieri della notte e del giorno” (Parmenide, 1, 10; e vedi anche la mia recensione a Coomaraswaamy), e in secondo luogo a proposito del “suono di siringa” (Parm., 1, 6: syringos aute) emanato dalla vorticosa rotazione dell’asse del carro solare sul quale il filosofo raggiunge la porta del cielo. Il potere liberatorio e trascendente di questo suono è infatti affine proprio a quello panico inventato dal titano.

D’altronde, su un piano più generale, va considerato il valore mistico dei suoni in un universo concepito come vivente e respirante. Negli scenari arcaici, il suono prodotto dal passaggio dell’aria in canne o canali rinvia al respiro del grande vivente, alle narici del Macrantropo, e più specificatamente richiama l’idea che le stelle siano anime-vento strutturate come canne, sfiatatoi o flauti (ne riferisce Aristotele, ma si veda Renato LaurentiIntroduzione a Talete, Anassimandro, Anassimene, Bari 1971/II ed. 1986, p. 153).

Nell’induismo, il dio Vishnu regge con una delle sue quattro mani la conchiglia che emette il suono dell’origine del mondo, il fondamentale om.

21) K. KerényiDie Mythologie der Griechen, Zürich 1951; tr. it., Gli dei della Grecia, Milano 1963, p. 91.

22) Furono i Ciclopi a dare la folgore ed il tridente ai due, nonché l’elmo dell’invisibilità a Pluto.

Che i Ciclopi siano fabbri e artigiani eminenti risulta confermato dal fatto che essi hanno insegnato la loro arte anche agli dei, in particolare a Efesto e Atena (Orph. fragm. 179 Kern, v. anche 178 e 180). A. BrelichEroi, op. cit., p. 333.

23) Kerényiop. cit., ibidem.

24) E le Moire, signore delle parti di destino assegnate.

25) Forse un antico demone preomerico del monte d’argilla Pelion, il quale oltre che con la marina Tetide risulta strettamente connesso con il poseidonico ippomorfo Chirone, che lo consiglia sui modi per prenderla. Sulla triade divina suddetta, cfr. Philippsonop. cit., p. 215 e ss.

26) Oltre Achille, Chirone educa alle arti liberali e guerrresche Giasone, Asclepio, Aristeo, e forse lo stesso Eracle. In proposito cfr. Geoffrey Kirk, The Nature of Greek Mythe, Harmondsworth 1974; tr. it., La natura dei miti greci, Bari 1977, p. 216. Per George Dumézil (Le problème des Centaures, Paris 1929), e successivamente da Henry Jeanmaire(Couroi et Courètes, Paris 1939) a Walter Burkert (Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Stuttgart 1977; tr. it., I Greci, Milano 1984, p. 255 e ss.), quelle dei centauri sono società di maschere, orientate all’apprendimento di tecniche iniziatrici al ruolo eroico.

27) Dopo la sua morte, la madre lo condurrà a Leuca, l’Isola bianca, altro esempio di simbolo polare, dove sposerà Medea.

Medea, figlia del sole, conosce l’arte di rinnovare smembrando e cuocendo, come i Titani fecero con Dioniso e come Demetra con Demofoonte e la stessa Tetide con Achille. Medea fece bollire in pentola un ariete a pezzi, traendone poi un giovane agnello, davanti alle figlie di Pelia per indurle ingannevolmente a rinnovare allo stesso modo il loro vecchio padre. La Grande madre Rhea ricompose con eguale procedura il giovane Pelope, servito alla tavola degli dei dal padre Tantalo.

28) Vaso François, vaso attico a figure nere di Ergotimos, con pitture di Klitias, prima metà del VI sec. a.C., Firenze, Museo archeologico nazionale.

La sfilata degli dei ivi raffigurata è quella per le nozze di Peleo e Tetide, nell’occasione da cui scaturisce la guerra che consolida il primato di Zeus.

29) Egli viene detto dighenes, nato due volte – e da Semele e da una ulteriore gravidanza condotta a termine da Zeus – . Invero sarebbe nato tre volte, perché viene trasfor­mato e ancora ricomposto, dopo lo sbranamento e la doppia cottura operata dai Titani, da quel resto di lui che era rimasto crudo e intatto – cuore o fallo che fosse – . Resta tuttavia da verificare se sotto le storie pervenute possa intravvedersi una spiegazione diversa da quella orfica: che i Titani avessero immortalizzato mediante il rito tremendo proprio uno di loro, un uomo-dio alternativo alla genera­zione degli dei nemici, fra i quali campeggia Zeus.

30) Cfr. Ugo BianchiIl dualismo religioso, Roma 1991, p. 31 e ss.

31) fr. 52: « la vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo». (Tr. G. Colli, op. cit., p. 35).

32) Il quale altro non è che lo stesso indifferenziato caos, dove infatti ogni cosa confluisce e si conserva senza gerarchie.

33) Kà roly KerényiDionysos. Urbild des unzerstoerberen Lebens, Muenchen-Wien 1976; tr. it., Dioniso Milano 1992. E Henry JeanmaireDionisos, Paris 1951; tr. it., Dioniso, Torino 1972.

34) Il Signore Sapiente dello zoroastrismo, Ahura Mazda, quando viene insidiato dal Signore del male, Ahriman, crea appositamente il mondo provocandolo alla battaglia finale in esso. La vittoria del Sapiente è sicura perché il nemico viene intrappolato in un campo segretamente votato alla catastrofe. Il grande protagonista mantiene le sue prerogative mediante la preveggenza e l’astuzia, ma egli regge altresì il centro dell’iniziativa perché è anche e soprattutto signore della morte.

Con la rivoluzione monoteista di Zarathustra la lotta tra i due spiriti, il buono e il cattivo, viene ripensata come una vicenda tutta interna all’unico dio del principio.

35) Fragments d’un journal, Paris 1973; tr. it., Giornale Torino 1976, p. 230; nota dell’8-11-1959.

36) Un tale tipo di morte alta lo si incontra seguendo la mistica della luce in varie grandi tradizioni, dallo sciamanesimo all’induismo, dal Libro dei morti tibetano (Bar-do thos-grol ) al biblico Elia, dalla gnosi all’alchimia. Sulle esperienze di luce mistica, cfr. Mircea EliadeMéphistophélès et l’androgyne, Paris 1962, cp. I. Nelle varie rappresentazioni che di essa vengono date, si propone l’esito positivo dello scioglimento da ogni rigidità e da ogni fissazione, fino a trovare la strada per immettersi nel verso giusto nella trasformazione, vale a dire riuscendo a trovare il varco per il passaggio ad altro e più intenso stato dell’esistenza.

37) Anche nell’Edda germanico arriva un momento finale nel quale anche gli dei muoiono; Wodan-Odhinn, che è già un signore della morte, seduto nel centro della dimora celeste Walhalla, raduna attorno a sé eroi ­ i berserkir, coloro che sono presi dal sacro calore guerriero – e principi caduti nelle battaglie, predisponendosi al combattimento conclusivo che precipiterà il cosmo nella catastrofe del Ragnarök, termine con cui si designa il destino ultimo degli dei, il loro famoso crepuscolo. Il signore della morte è peraltro superiore ad ogni dio; nell’induismo egli volge la ruota del mondo.

38) Una tale idea ricorre in diverse tradizioni, dall’induismo all’ebraismo. In questo, ad esempio, l’Adamo edenico – prima della caduta – appare costitutivamente luminoso (per il rapporto tra il nome Adamo e il sangue-calore-luce cfr. René GuénonFormes traditionnelles et cycles cosmiques, Paris 1970; tr. it., Forme tradizionali e cicli cosmici, Roma 1974, pp. 43 e ss.) ed androgino (Gen 1, 27: «maschio e femmina li creò»; la donna fu esteriorizzata solo successivamente, Gen 2, 22. In proposito cfr. anche René Guénon, Le symbolisme de la croix, Paris 1931; tr. it., Il simbolismo della croce, 1973, cpp. II e III), autentico centro privilegiato della suprema coincidentia oppositorum. Peraltro egli si configura come l’immagine di Dio ovvero come il suo doppio speculare. Anche l’esegesi gnostica della formazione demoniaca di Adamo (e della inaugurazione dell’umanità attuale, sorta dalla scissione della natura divina) presuppone comunque un Anthropos divino quale modello da ripetere; cfr. l’Apocrifo di Giovanni e l’Ipostasi degli Arconti.

39) Nella religione iranica, il proprio demone ­ (la propria daena o den individuale; speciale facoltà tipica dello stato di purità menog; un doppio, abitatore dell’altro mondo) sotto forma di graziosa fanciulla viene incontro ai giusti sul ponte Shinvat, mentre una megera spietata aggredisce gli ingiusti, per i quali il ponte si assottiglia pericolosamente come una lama di rasoio.

40) Si pensi, ad esempio, all’importanza che a tal fine è stata assegnata alla parola giusta. Una particolare preghiera-invocazione contiene una autentica potenza cosmica; nel quadro vedico e iranico, la cosiddetta parola di verità (satyakriya o preghiera vera, pratica rituale consistente nel dire una verità per ottenere il favore del dio) una volta pronunciata si fa realtà. Chi possiede il suono della verità, possiede la realtà stessa, che con quella inscindibilmente coincide. Si consideri che lo stesso importante concetto di rta significa, oltre che verità, anche inno del culto. I mantra risalenti allo Atharva-Veda – sono una autentica parola vivente, un sigillo di potenza. Un’eco veneranda e terribile di questa idea la riceviamo anche in Occidente da Parmenide, per il quale parola vera, pensiero vero, essere vero si tengono strettamente saldati insieme. Ma si veda anche come in Plotino (Enn., IV, 42, 26) la formula giusta serva a catturare le energie dell’invisibile. –

41) Nel foro dei Romani si trova il mundus, passaggio attraverso il quale gli abitanti della terra entrano periodicamente in comunicazione con quelli degli inferi. Da lì gli antenati ritornano sopra recando la loro influenza. Per la religione romana arcaica, si tratta di un luogo strettamente coessenziale con il carattere sacro della città, altrettanto fondamentale quanto la sede alta delle potenze protettrici, l’arce.

42) Rito tipico della religione induista e tibetana, mappa mistica, disegnata dal neofita con l’aiuto di un maestro, nella quale egli proietta una rappresentazione del dramma cosmico, per giocarvi la sua parte. – Cfr. Giuseppe TucciTeoria e pratica del mandala, Roma 1949 (19692).

Svolge una funzione similare il labirinto, nel quale infatti si propone una simbologia del viaggio verso il centro. Anche il labirinto sembra abbia fatto da modello per il palazzo regio.

Non abbiamo qui lo spazio per sviluppare un’indagine sui moventi ideali che hanno condotto gli uomini a costruire città. Pare ormai accertato che la formazione delle città sia collegata al sorgere delle civiltà megalitiche, i cui monumenti riguardano il culto dei morti. Le residenze stabili dei vivi si sarebbero inizialmente associate alle residenze in pietra dedicate ai morti. La scelta di un luogo fisso in cui abitare ha certamente a che fare con l’individuazione e la collocazione della sede dei propri morti, e soprattutto con l’esigenza di una comunione rituale con loro. La città dei vivi si sarebbe sviluppata attorno ad un centro di culto e di scambio con gli antenati. Anche se in seguito le due città, dei vivi e dei morti, talora si distinguono, nessuna cesura interviene mai per i re, gli eroi, gli antenati illustri che, anzi, continuano ad occupare il centro della città dei vivi.

In conclusione, l’idea che questo mondo sia il mondo infero da attraversare – e che appartenga al destino dei mortali organizzare con efficacia il suo attraversamento – sarebbe il motivo profondo sottostante alla fondazione delle città. Esse infatti vengono interpretate come accessi privilegiati, varchi particolarmente agevolati, porte del cielo (è questo il significato del nome di Babilonia). La successiva evoluzione storica ha progressivamente laicizzato il carattere del centro urbano, nel quale si riteneva attiva la comunicazione tra cielo, terra, inferi. La letteratura sulla simbologia della città è molto ampia. Per un primo orientamento cfr. Mircea EliadeHistoire des croyances et des idées religieuses, vol. I, Paris 1974; tr. it., Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I, Dall’età della pietra ai misteri eleusini, Firenze 1979, cp. V, pp. 131-156. Dello stesso cfr. Le mythe de l’éternel retour, Paris 1969, pp. 13 e ss.

43) Fr. 53; la traduzione è quella di G. Colli, op. cit., p. 35.

Dietro polemos si cela Zeus, secondo l’opinione di Vittorio MacchioroEraclito. Nuovi studi sull’orfismo, Bari 1922, p. 37.


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