Cinquant’anni di pittura (da átopon Vol. VI)

Lima de Freitas
Ed. Hugin, Lisboa 1998
Omaggio a Lima

Gilbert Durand

Proprio nel momento in cui ricevetti lo splendido libro arricchito da più di duecento tavole a colori dedicato ai cinquanta anni dell’ attività del mio grande amico Lima nostro fedele alleato nel nuovo KulturKampf –  al contrario – per la restaurazione delle dignità dell’immaginario, per l’istaurazione di una pedagogia illuminata dell’immagine, ricevetti anche la notizia della sua scomparsa.

cinquantanniAvevo già consacrato un libro –  Mito lusismos de Lima de Freitas. Postmodernisme et modernité de la tradition ( Coedizione: Ed. Perspectivas & Realidades, Lisboa e Galeria Gilde, Guimarães 1987) – alla difesa dell’originalità del pensiero pittorico di Lima de Freitas.

In un periodo in cui potremmo dire che l’arte del nostro secolo è in piena liquidazione, Lima non ha avuto paura di manifestarsi sia nella padronanza delle tecniche che nella rappresentazione figurativa dei suoi soggetti e motivi, attraverso tutte le tecniche ereditate da circa sette secoli di vita spirituale e di fervore mitico del “bel piccolo popolo” (così il nostro Frédéric Mistral chiamava il popolo portoghese) cantato da Camoens, con lo sguardo rivolto verso il richiamo del grande largo.

Lo spirito dell’opera pittorica di Lima de Freitas rompe con l’accademismo modernista che campeggia nella desolazione delle nostre gallerie d’arte e dei nostri musei contemporanei mentre la reintegrazione mitica della figura in una donazione di senso fa coro con le prospettive pittoriche più moderne

Nel 1993 ho avuto il grande onore di fare una prefazione al libro 515, Le Lieu du Miroir. Art et numérologie, nella Biblioteca dell’Ermetismo, dell’editore Albin Michel 

Si tratta di un’opera maggiore di Lima in un dominio che potrebbe essere chiamato l’esoterismo applicato, applicato alla lettura e alle analisi di concrete opere d’arte, della loro fecondità simbolica come del loro substrato numerologico.

Quest’opera consiste in una lettura magistrale consacrata a un quadro del XVI secolo, ritrovato nel Convento della Madre di Dio a Lisbona, dal tema misterioso: Cristo appare a Sua Madre .

Partendo dal misterioso “515”, numero del “Messo di Dio” che Dante fa dire a Beatrice nella Divina Commedia, l’autore si impegna in una affascinante ricerca attraverso le tradizioni pitagoriche e cabalistiche nell’ambito dell’arte e del pensiero tradizionale. Ci fa scoprire le tracce segrete di questo numero pentagonale, sia nell’iconografia egiziana che nelle vetrate e nelle incisioni del Medio Evo cristiano, in alcune opere d’arte celebri come la Melancolia di Albrecht Dürer o i preziosi pannelli del trittico del Maestro portoghese del XV sec., Nuno Gonçalves.

Nella prefazione al libro, ho scritto che “questo capolavoro è una analisi minuziosa che si colloca alla testa di una triplice avanguardia: quella di una scienza di punta, avallata dalla meccanica quantica, che è quella delle simmetrie pentagonali; quella di una riflessione metafisica e teofanica che raggiunge le costatazioni erudite di H. Corbin, in cui si arriva a legittimare il posto della carne, del femminile, del male nell’economia generale della Creazione e della Redenzione e quella di un serio riavvicinamento ai saperi tradizionali quali la numerologia, l’alchimia, ecc.”

Quest’opera testimonia un metodo che, lungi dal bloccarsi in definizioni, per principio limitative, è costantemente un’amplificante convocazione del senso che l’autore paragona, metaforicamente, alla crescita di un cristallo specifico che si espande – come un torrente vitale – in tutta l’espansione della cristallografia. Metodo ad un tempo olistico frattale . Olistico perché come in un ologramma ogni particella rinvia e segna la configurazione dell’insieme; reciprocamente la frattalità indica una self– similarity in cui, come dice Mandelbrot, regna “una costante irregolarità regolare”.

Un tale metodo, poggiando su ipotesi ed esperienze scientifiche precise è destinato a sorprendere le autorità accademiche che, impregnate del positivismo del secolo scorso, si consentono soltanto due fonti di conoscenza: quella dello storicismo ( post hoc ergo propter hoc ) e quello della causalità lineare.

Nella prospettiva di tale metodo, come nelle fisiche più attuali, è il campo (e la non separabilità ) che prevale euristicamente sulla causa meccanica. Come hanno visto alcuni scienziati di punta, è la sintesi che precede l’analisi, è l’implicazione (D. Bohm) che guida l’esplicazione.

Il comparatismo iperbolico utilizzato ha la funzione di mettere in evidenza i nuclei archetipici che semper et ubique permangono nel fondo della natura umana.

Inoltre la numerologia, scienza tradizionale condivisa da tutte le culture umane, si collega e modella gli schemi archetipici. Permette di dare una spiegazione di ciò che chiamerei “l’illusione diffusionista” o “l’illusione della Tradizione unica”.

Non si tratta di una trasmissione di un sapere esterno alla natura umana, ma tutt’al più – come nel celebre episodio del Menone – di una maieutica che evidenzia le trame profonde, le costellazioni permanenti ed immanenti del pensiero simbolico del Sapiens Sapiens .

Le Lieu du Miroir è purtroppo l’ultimo fiore di una serie di scritti che dall’inizio degli anni 70 si erigevano come il contrappeso intellettuale del gesto pittorico.

Nel 1971 veniva pubblicato a Lisbona Pintura incomoda , (Dom Quixote), seguito nel 1975 da uno degli studi maggiori, riccamente illustrati, sul simbolismo del labirinto, O Labirinto (Arcadia, Lisboa).

Immediatamente dopo Lima ci dava As Imaginacoes da imagem (Arcadia).

Di grande significato fu anche il suo operarsi allo svelamento dell’opera del grande artista ed amico il pitagorico José Almada Negreiros.

A questo importante autore Lima ha dedicato nel 1977 Almada e o numero (Arcadia) e nel 1978 Pintor e Sete Imprensa Nacional ) e ha successivamente curato l’edizione e la prefazione della sua opera Ver (Arcadia 1982).

Noi che abbiamo contribuito all’edificazione del nostro tempo che, per nostra volontà è “civiltà dell’immagine” dobbiamo entrare – attraverso il portale lusitanico – nella cattedrale della cultura europea che gli scritti e i dipinti di Lima de Freitas ci svelano, ma soprattutto dobbiamo estrarne, attraverso un’operazione di alchimia cognitiva, la filosofia, per non dire l’ontologia che è il fondamento del nostro tempo.

Il novanta per cento dell’immensa produzione di Lima è votato alla figura dell’Uomo, alle sue leggende, alla sua storia.

Ma proprio quel rimanente dieci per cento che egli consacra al paesaggio ci dà la chiave fondamentale dell’ispirazione di cinquanta anni di pittura.

Desidero fermarmi su un paesaggio (tav. n. 169) che mi è caro poiché fu ispirato da una foto che avevo scattato in compagnia di Lima di fronte al massiccio del Monte Bianco il cui splendore filtrava attraverso lo scheletro di due tronchi tormentati. Il quadro fornisce già dal titolo una prima chiave inattesa “ Homagem a C. Friedrich e Luca de Leyde ” i quali, ambedue, trascendono la piatta rappresentazione realista e mimetica.

L’uno attraverso una trascendenza del sentimento, tutta romantica, che pervade il paesaggio, il mare, i pini, gli abeti, la foresta, gli alberi spogli, il chiaro di luna, per la presenza intensa del sentimento umano espresso dal monaco perduto sulla spiaggia immensa, le apparizioni insolite delle preghiere delle cattedrali o dei conventi fantasmatici, il segno nero delle tombe sotto la neve, la presenza, – sempre di spalle – di personaggi che guardano un orizzonte lontano.

Dell’altro ricordiamo il quadro delle Figlie di Lot che ubriacano il vecchio padre in un paesaggio allucinato dagli incendi di Sodoma e Gomorra e che da solo sarebbe sufficiente, secondo Antonin Artaud, a riassumere e condensare tutte le felicità e i desideri che possono essere soddisfatti al museo del Louvre.

I Paesaggi di Lima non sono delle piatte impressioni della natura, ma apparizioni di una sopranatura che sottolinea un’immagine tormentosa e la costellazione dei suoi ridondanti corollari.

In quasi la metà delle venti tele di paesaggio, il cielo si sdoppia per così dire, inquadrando attraverso l’alto e il basso della tela una terra rocciosa e caotica – in cui i continenti si scontrano e vanno alla deriva, talvolta si innalza una rovina o un portico. In questo sdoppiamento il contenuto dei cieli è parallelo, ma mai simmetrico. Il cielo dello zenith della tela, in cui vola l’aquila è banalmente familiare per il rassicurante splendore del giorno, il cielo del nadir è spesso notturno e si apre sulla profondità del Tempio interiore emblematizzato dalla stella che splende nelle tenebre, come la stella dei magi che brilla nel fondo di un abisso notturno.

Luce celeste che le tenebre non “comprendono”.

La lettura di questi tormentosi emblemi è facile: il meticoloso racconto del pittore che ha immerso il suo pennello nel surrealismo è stretto tra il cielo quotidiano di cui la luce banale dà l’apparenza alle cose e il cielo di ogni profondità, della “profondità dell’apparenza”, notturno tempo interiore in cui si manifesta soltanto l’illuminazione della luna e delle stelle.

A questa “reale presenza” (G. Steiner) del senso fatale dell’universo, del paesaggio interiore ci conducono 50 anni di pittura e di riflessione di uno dei più belli e nobili pittori che il nostro XIX secolo ci abbia portato.

Gilbert Durand


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