I cristiani e l’impero romano

Ezio Albrile

Marta Sordi
I cristiani e l’impero romano
Jaca Book, Milano 2020, pp. 238

 

Il libro di Marta Sordi si può ritenere un classico della storiografia cristiana e questa ultima edizione merita alcuni approfondimenti, a partire dalle notizie non cristiane sul processo di Gesù. Esse risalgono al primo secolo o agli inizi del secondo, e si riducono sostanzialmente a tre: un passo di Tacito (Ann.  15, 44, 5), in cui si ricorda solo l’esecuzione di Gesù per opera di Ponzio Pilato; il cosiddetto testimonium Flavianum (Ant. Iud. 18,64), di cui oggi si tende a sostenere l’autenticità e dal quale risulta che «su denuncia dei nostri notabili, Pilato lo [Gesù] condannò alla croce»; la lettera dello stoico siriaco Mara Bar Serapion, databile fra il 73 e il 160 d.C., in cui si parla di «un saggio re giustiziato dagli Ebrei». Le apparenti contraddizioni risultanti dal confronto fra queste testimonianze indipendenti dai Vangeli, e, in particolare, fra quella di Tacito e quella di Mara Bar Serapion si conciliano soltanto postulando la più ampia ed articolata impostazione dei Vangeli, con la quale coincide, peraltro, quella sintetica di Giuseppe Flavio: esecuzione da parte di Pilato, ma su denunzia e istigazione giudaica. Dal punto di vista delle fonti il racconto dei Vangeli non presenta dunque alternative criticamente preferibili: Gesù è crocefisso dai romani grazie a un processo imbastito dal Sinedrio; solo i romani potevano comminare pene capitali.

La tradizione cristiana occidentale, la cui voce più antica è rappresentata da un famoso passo di Tertulliano (Apol.  5,2), affermava che l’imperatore Tiberio, ricevuta la relazione di Pilato, presentò al senato una proposta tesa ad ottenere il riconoscimento di Cristo come dio e, avendo ottenuto un rifiuto, in seguito al quale il culto reso a Cristo diveniva per lo stato romano superstitio illicita,  pose il veto ad eventuali accuse contro i cristiani. I moderni respingono per lo più questa notizia ritenendola un’invenzione apologetica. La Sordi crede però che l’episodio riferito da Tertulliano sia storico. Tiberio non poteva sapere, nel 35, che il cristianesimo avrebbe esercitato, al di fuori della Giudea, un proselitismo di gran lunga maggiore di quello del giudaismo. La sua fu una proposta politica, strettamente collegata con la politica di pacificazione che Tiberio conduceva verso una provincia (come oggi) agitata, dal punto di vista religioso, come la Giudea. Da questo momento e fino a Nerone, i governatori di Giudea seppero come dovevano comportarsi nei riguardi dei «Christiani» e la loro presenza si rivelò per i seguaci della nuova fede una salvaguardia.

Il 62 d.C. segna l’anno della svolta etica di Nerone, che puntava ormai apertamente sulla autocrazia e la teocrazia; è anche l’anno del definitivo allontanamento di Seneca, che aveva contribuito, almeno in parte, a frenare gli eccessi di Nerone, delle nozze con Poppea (dagli evidenti interessi filo-giudei), che, insieme a Tigellino viene indicata da Tacito come la perversa consigliera di Nerone (Ann. 15, 61, 4). La palese benevolenza che il governo romano mantenne, dopo la morte di Claudio, sotto i primi anni del governo di Nerone, verso i cristiani può essere pertanto ragionevolmente attribuita a Seneca e alla classe dirigente di formazione stoica che, fino al 62, continuò la sua collaborazione con Nerone.

La negazione della responsabilità di Nerone nell’incendio che nel luglio del 64 devastò Roma è ormai una costante in molti studi moderni, a partire dalle ricerche del latinista Carlo Pascal (1866-1926). Tra le fonti antiche, fatta eccezione per Tacito, tutte le altre notizie sembrano sicure dell’attribuzione dell’incendio a Nerone, dal contemporaneo Plinio (Nat. hist. 17, 1, 5) che è probabilmente alla base di tutta la tradizione successiva e che vede nell’incendio la vendetta di Nerone per l’insurrezione popolare a favore della moglie ripudiata; allo stesso Tacito (Ann. 15, 38ss.), che fornisce della vicenda il racconto più ampio e particolareggiato, a Svetonio (Nero 38), a Dione (62, 16-18). L’alternativa dell’accusa a Nerone non era quella ai cristiani, ma l’attribuzione al caso.

Tutte le fonti sono comunque d’accordo nel ritenere che furono viste persone che attizzavano l’incendio, una volta che questo era iniziato. Si trattava, però, del fenomeno dello sciacallaggio, consueto in tutti i tempi e in tutte le latitudini in occasione di analoghe sciagure: per Svetonio e per Dione, però, costoro erano liberti  cubicularii  dell’imperatore o addirittura soldati «che si dedicavano ai saccheggi» e la loro presenza poteva certamente autorizzare i peggiori sospetti. Tali sospetti erano alimentati anche dall’attribuzione all’imperatore di un movente preciso per la distruzione di Roma: il desiderio di cimentarsi in una grande impresa urbanistica, diventando il nuovo fondatore di Roma. Anche se l’incendio non fu appiccato per volontà di Nerone, esso fu sfruttato da Nerone per dar vita ad un suo progetto e, con questa finalità, fu forse «aiutato» in certe zone della città, la cui distruzione stava particolarmente a cuore all’imperatore in vista della ricostruzione. L’esperienza attuale degli incendi dei boschi, fa notare la Sordi, che ogni estate affliggono i nostri paesi rivela che il caso e il dolo possono non escludersi a vicenda.

Non si deve però dimenticare che Svetonio sa che i cristiani furono incriminati da Nerone, non per l’incendio, ma perché seguaci di una superstitio noua et malefica; anche Tacito è convinto che il cristianesimo sia una superstizione nociva, ma esclude decisamente che siano colpevoli anche dell’incendio. Per l’unica fonte che collegava la persecuzione con l’incendio, l’incriminazione dei cristiani fu solo un espediente per far cessare le voci che incriminavano Nerone. Tale espediente presuppone, non solo l’infamia, l’impopolarità di Nerone e la consistenza delle accuse a lui mosse, ma anche l’impopolarità dei cristiani, scelti come capri espiatori appunto perché osteggiati.

Il regno di Marco Aurelio e del figlio Commodo, suo successore nel 180, segnò una svolta decisiva nella politica dell’impero verso i cristiani. A mutare la valutazione che il governo romano aveva dato fino a quel momento delle comunità cristiane e a renderle politicamente sospette era intervenuta la diffusione fra i cristiani del montanismo, un culto estatico caratterizzato da una forte intransigenza rigorista nei riguardi dello stato, palesemente provocatorio attraverso istanze profetiche, carismatiche, e la sete di martirio. La distinzione fra le posizioni dei montanisti e quelle della «Grande Chiesa» non dovette essere agevole, nei primi anni, agli osservatori pagani. Lo dimostra il giudizio che Marco Aurelio dà nei Pensieri del martirio cristiano, che coglie puntualmente, nello spirito e nell’atteggiamento esteriore, la posizione dei montanisti davanti al martirio: in effetti, prima di essere una dottrina, il montanismo fu un movimento di entusiasmo religioso, propugnatore di un rinnovamento integrale e di un totale distacco dal mondo in vista della parusia imminente, un movimento capace di suscitare comprensione e simpatia anche fra quei cristiani che non condividevano il fanatismo e le stranezze dei suoi «profeti», ma difficile, proprio per questo, da circoscrivere in limiti precisi.

Nell’analisi della Sordi il primo testo in cui i vocaboli martys, martyrion, martyreo figurano come designazione del martirio cristiano è la lettera della chiesa di Smirne a quella di Filomelio sull’uccisione di Policarpo: l’Asia Minore, patria dell’Apocalisse, è il luogo in cui alla metà del II  secolo si era ormai stabilito un uso tecnico di questi vocaboli. Che una svolta ci fu, nella valutazione cristiana del martirio è rivelato non tanto dalla terminologia greca, che rimane sostanzialmente la stessa, ma dall’adozione in ambiente latino del prestito greco martyr.  Tertulliano è il primo scrittore latino ad usare il termine, che però non lo utilizza negli scritti indirizzati ai cristiani ma ai pagani. Neppure nelle traduzioni latine del Nuovo Testamento il prestito greco martyr  sostituisce il latino testis  e i suoi derivati, e non solo nelle traduzioni più antiche ma neanche in quella di Gerolamo della fine del IV secolo: eppure il pagano Ammiano Marcellino, contemporaneo di Gerolamo, conosce il termine nel suo nuovo significato «tecnico» ed «ecclesiale» e lo usa. Con quale termine esprimevano il concetto di martire i latini prima di adottare il prestito greco martyr?  Il lessico è quello della confessione e l’uso del verbo confiteor e dell’analogo fateor  per il riconoscimento da parte dei cristiani della loro fede davanti ai tribunali è certamente il più antico ed è usato anche da Tacito (Ann. 15, 44, 6 ).

Il significato nuovo, dato in greco e recepito in latino, del termine martysmartyr  e della decisione di conservare il ricordo preciso dei martiri e il loro nome, dipende quindi, secondo la Sordi, da un fatto nuovo e storicamente accertabile: fu la comparsa del montanismo, culto estatico e profetico, la volontà di prendere le distanze dallo slancio irresponsabile e dalle pretese fondamentaliste con cui i montanisti cercavano con l’autodenuncia e con la provocazione contro templi e contro statue la condanna e la morte, a costringere la Grande Chiesa a definire per la prima volta la natura del martirio «secondo il Vangelo» e a proporre a tutti l’esempio dei «veri» martiri. La tolleranza di fatto che si era stabilita fin dagli ultimi anni di Marco Aurelio nei riguardi dei cristiani era collegata con l’accettazione da parte degli stessi cristiani delle regole della convivenza politica che si risolveva nella loro partecipazione senza rifiuti pregiudiziali alla vita dell’impero: per questo la polemica che Tertulliano conduce in questi anni contro i cattolici non può essere ridotta ad uno scontro tra rigoristi e lassisti, ma si rivela come la lotta che l’intransigenza montanista conduceva contro l’inserimento dei cristiani nelle strutture dello stato e della società.

Nello stesso anno dell’assassinio di Elagabalo, l’imperatore siriano, nel 222, furono uccisi a Roma, nel corso di un tumulto popolare, papa Callisto ed i sacerdoti Calepodio ed Asclepiade. Gli Atti  del loro martirio, tardi, ma non privi di particolari attendibili, ricordano che i corpi di Calepodio e di Asclepiade furono trascinati per la città e poi gettati nel Tevere e che Callisto, fatto precipitare dalla finestra della sua casa in un pozzo nell’area dove sorse poi la chiesa di S. Maria in Trastevere, vi fu lapidato. La coincidenza del modo e della data della morte del capo della chiesa di Roma con quella dell’imperatore sembrano suggerire una sovrapposizione fra i due eventi. Agli occhi della folla infuriata i cristiani, che Elagabalo aveva favorito, potevano apparire probabili fautori dell’imperatore massacrato. In ogni caso però il furore popolare non ebbe alcun seguito nell’atteggiamento dell’impero verso i cristiani. La condotta seguita nei loro riguardi da Elagabalo e da sua madre era sulla linea della migliore tradizione del regno dei Severi: essa fu sviluppata, in modo coerente ed organico, da Severo Alessandro e dalla consorte Giulia Mamea.

Una prima reazione ancora grezza e inconsapevole alla «cristianizzazione» dell’impero, che si manifestava attraverso l’inserimento, sempre più sensibile, di elementi cristiani nelle strutture dello stato e della corte, si ebbe con Massimino il Trace, l’imperatore eletto nel 235 a Magonza. Sono gli albori di ciò che dilagherà qualche anno dopo.

La persecuzione di Valeriano rappresenta infatti una svolta decisiva nei rapporti fra lo stato romano e il cristianesimo: essa apre, dopo il lungo e contraddittorio compromesso fra la condanna di diritto e la tolleranza di fatto, un’epoca nuova, quella dei riconoscimenti ufficiali, che culminerà nel cosiddetto «editto di Milano». Paradossalmente, secondo Marta Sordi, fu infatti il riconoscimento negativo di Valeriano, con la sua decisione di rinnovare profondamente la vecchia legislazione anticristiana, colpendo il cristianesimo come chiesa, come gerarchia, come struttura, e con i due minuziosi editti,  a sbloccare la situazione sul piano giuridico, rendendo possibile a Gallieno, il primo riconoscimento positivo del cristianesimo.

Per comprendere la persecuzione di Valeriano, come le manifestazioni popolari anticristiane che la precedettero bisogna tener conto dell’angoscia e delle superstizioni risvegliate ed alimentate nelle masse dalla peste e dalle catastrofi naturali e militari che sconvolsero in questi anni terribili la vita dell’impero. Proprio in questa volontà bisogna cercare, secondo Marta Sordi, la novità della persecuzione di Valeriano: egli colpisce i cristiani delle classi dirigenti, perché, diversamente dai suoi predecessori, non vuole l’integrazione politica dei cristiani nello stato romano, ma teme ormai la cristianizzazione dell’impero; egli colpisce i membri della gerarchia ecclesiastica perché ha capito che, se si vuole colpire il cristianesimo, bisogna colpirlo come Chiesa. Con Valeriano lo stato romano prende atto per la prima volta sul piano ufficiale dell’esistenza della Chiesa e dell’organizzazione ecclesiastica e ne dichiara per la prima volta l’illiceità. Fino a quel momento, sebbene la religione cristiana fosse proibita sul piano individuale, l’organizzazione ecclesiastica, la Chiesa, poteva esistere, legalmente, non in forza di un riconoscimento particolare, ma in forza della legislazione generale in materia di associazioni:  ora veniva dichiarata illegale, col cristianesimo, anche la Chiesa.

Per questo l’editto di tolleranza di Gallieno non può essere considerato in alcun modo il ritorno puro e semplice alla situazione anteriore alla persecuzione: abrogando gli editti paterni e restituendo ai vescovi le proprietà ecclesiastiche confiscate, Gallieno renderà lecito di diritto e non solo di fatto il cristianesimo. Con l’editto di Gallieno vengono abrogate le vecchie leggi anticristiane: d’ora in poi la legislazione preesistente non fornirà più il pretesto o lo spunto né all’iniziativa dello stato né all’accusa privata. D’ora in poi per perseguitare il cristianesimo saranno necessarie leggi nuove: tali saranno gli editti con cui avrà inizio la persecuzione dioclezianea.

La pace gallieniana era il punto di arrivo del lungo cammino compiuto nell’impero dal sincretismo solare, nella ricerca di una convivenza pacifica tra gruppi religiosi diversi e di un summus deus  dai molti nomi, in cui tali gruppi potessero riconoscere il loro dio e a cui l’impero, oppresso da una grave crisi, potesse affidare la sua protezione. La scelta del dio più forte diventa in questo tempo il problema politico impellente dell’impero.

L’adozione del Sole quale simbolo di tale politica religiosa, che aveva caratterizzato la linea della tolleranza, non era del tutto sgradita neppure ai cristiani, che riconoscendo in Cristo il Sol Iustitiae,  non disdegnavano nella loro iconografia tipi e immagini solari. Già Tertulliano, confutando i vari errori dei pagani sul Dio dei cristiani, approssimava l’idea di chi, fraintendendo il significato della domenica, dies Solis,  credeva che i cristiani adorassero appunto il Sole. Il ritorno, con Diocleziano, agli dèi della vecchia tradizione romana e l’impostazione religiosa tradizionalistica, dovevano quindi necessariamente segnare la fine della tolleranza e la ripresa dell’intransigenza e della persecuzione nei riguardi del cristianesimo.

Alla radice del provvedimento ci fu, secondo Lattanzio, una denunzia degli aruspici, che accusarono i cristiani di impedire con la loro presenza il manifestarsi dei responsi divini attraverso le viscere delle vittime. Diocleziano si adirò e ordinò che tutti i presenti sacrificassero e estese poi l’obbligo del sacrificio a tutti i palatini e a tutti i soldati, stabilendo che coloro che non avessero ubbidito fossero costretti a dimettersi dall’esercito. La scelta del giorno dei Terminalia (23 febbraio) del 303, per la propugnazione del primo editto (Lact. De mort. 12 ,1), con il significato simbolico e augurale della festa, rivela l’influenza del paganesimo più conservatore, ispirato dagli aruspici: in base ad esso le chiese dovevano essere distrutte, le Scritture date alle fiamme, i cristiani appartenenti ai ceti più elevati (honestiores) colpiti da infamia,  privati del diritto di ricorrere in giudizio, soggetti a qualsiasi azione legale fosse intentata contro di loro e sottoposti, in caso di condanna, a pene degradanti.

Come sappiamo bene, la mutazione radicale avvenne fra il 306 e il 312, quando Costantino, nel corso della campagna contro Massenzio fece rappresentare sugli scudi e sulle insegne il misterioso segno (monogramma di Cristo o croce monogrammatica) che aveva visto in sogno o in visione ed attribuì al Dio dei cristiani la vittoria di Ponte Milvio.

Secondo alcuni autori – precisa la Sordi ‒ gli iniziatori della tolleranza religiosa furono Massenzio e Licinio e non Costantino e l’attribuzione a quest’ultimo di una «conversione cristiana» nel 312 fu una trovata apologetica degli scrittori cristiani della sua corte, Lattanzio ed Eusebio, a cui Costantino trovò comodo, negli anni dello scontro finale con Licinio, dare credito. Il misterioso segno adottato da Costantino nel 312 non sarebbe stato quindi un segno cristiano, ma un simbolo solare e Costantino sarebbe rimasto, per alcuni anni ancora, un adoratore del Sole. Questa, in breve, la famosa «questione costantiniana», che sempre secondo la Sordi oggi sarebbe superata: la cronologia tradizionale, che colloca nel 312 la «svolta» cristiana non è più messa in dubbio seriamente da nessuno e così pure la versione delle fonti cristiane contemporanee (Lattanzio e Eusebio) che attribuiscono a Costantino e non a Massenzio o a Licinio l’iniziativa di tale svolta e danno un significato cristiano al famoso simbolo posto da Costantino sugli scudi e sul vessillo; si accetta insomma che nel 312 ci sia stata una svolta, anche se più che alla religiosità personale di Costantino e alla sincerità o meno della sua conversione, l’attenzione di alcuni fra gli studiosi più recenti è rivolta alle condizioni che ne resero possibile la politica e alla situazione religiosa dell’impero nella varietà delle sue componenti.

Costantino si propose come «liberatore» di Roma da un «tiranno» e come salvatore dell’impero per ispirazione e con l’aiuto di Dio  ed affidò a tale Dio la salvezza dell’impero con una scelta che si concretizzava, fin dall’inizio, nel rifiuto di salire in Campidoglio per ringraziare della vittoria Giove Ottimo Massimo. Egli, al contrario, invocò nella preghiera il dio di suo padre, chiedendogli di rivelargli chi fosse e di stendergli la sua destra. E mentre pregava gli apparve una visione straordinaria: egli disse di aver visto nel cielo, mentre il giorno stava già declinando, al di sopra del Sole,  un trofeo della croce fatto di luce e una scritta su di esso che diceva «Con questo vinci». Lo stupore fu immenso in lui e in tutto l’esercito, che lo seguiva in marcia e che fu spettatore del miracolo. Egli si domandava, pieno di incertezza, che cosa mai significasse quella apparizione. Sopraggiunse la notte e gli apparve in sogno il Cristo di Dio con il segno che aveva in cielo e lo esortò a farsene uno somigliante e a servirsene come difesa contro i nemici. Il giorno seguente egli discusse la cosa con gli amici e fece costruire l’insegna e, dopo aver deciso di non onorare nessun altro dio fuorché quello che aveva visto  fece chiamare «gli iniziati di tale dottrina» (il greco dice mystai utilizzando uno specifico lessico esoterico) e domandò chi fosse quel dio e che cosa significasse la frase della visione. Gli risposero che quello era il Figlio unigenito dell’unico e solo Dio e che il segno apparso era segno di immortalità e trofeo di vittoria sulla morte. Questo in sintesi il racconto di Costantino a Eusebio, di fatto accettato nell’analisi storica di Marta Sordi: Costantino era ancora, alla vigilia della spedizione contro Massenzio, un devoto del Sole, e convertendosi al Cristianesimo dal culto solare, aveva sentito questa conversione come il superamento di una religiosità incompleta, non come il rinnegamento di una religione falsa. Nella visione il dio dai molti nomi aveva assunto un nome e il simbolo di Cristo era apparso sul sole tramontante.

La Sordi precisa come lo storico non sia obbligato a credere alla realtà della visione di Costantino, il cui temperamento, come rivela il precedente di Apollo, apparsogli in un tempio della Gallia, sembra essere stato naturalmente portato alle visioni «soprannaturali»; ben difficilmente però uno storico non prevenuto potrà negare che nel 312 Costantino abbia avuto un’esperienza religiosa fuori dal comune, tale da sconvolgere il suo comportamento verso la religione tradizionale e verso la stessa religione solare, che con la religione tradizionale non era affatto incompatibile, e da renderlo certo di un rapporto assoluto col Dio sommo, che solo ora si manifesta per lui come il Dio unico e si identifica col Dio dei cristiani.

Tale rapporto è centrato sull’idea di alleanza con Dio, che condiziona da questo momento il comportamento di Costantino, sia nei confronti dei sodali e dei rivali sia nel confronto dei soldati e dei sudditi: tale idea nasce dalla stessa esigenza religiosa di Aureliano e di Diocleziano, quella della ricerca del dio più forte, capace di assumere efficacemente la difesa dell’impero, da una esigenza religiosa certamente sincera ed autentica, nella confessione di una dipendenza totale dell’uomo dalla divinità, ma che non percepisce ancora la natura profonda del cristianesimo, né comporta un mutamento radicale delle proprie vedute e della propria vita. La religiosità di Costantino convertito resta, almeno negli anni immediatamente successivi al 312, la tipica religiosità romana, strettamente collegata con gli interessi dello stato; riguarda Costantino più come imperatore che come uomo, lo impegna alla riconoscenza dello stato verso il Dio che gli ha dato la vittoria. Riaffiora, nella scelta costantiniana dell’alleanza con Dio, un’idea antichissima della tradizione religiosa romana, il concetto di pax deorum. Tale idea, che per i Romani aveva la sua origine nel rito espiatorio, di probabile origine etrusca del pangere clavum (da cui il termine pax)  non era estranea del resto, neppure alla tradizione religiosa giudaico-cristiana.

Ezio Albrile