I Greci e l’unicum

Giuseppe Lampis

Igreci pensano l’uno come unicum e i nostri guai di interpreti che si sentono e pretendono successori cominciano da lì. È da lì che si avviano i travagli di venticinque secoli di filosofia, perché l’uno dei greci si è espresso in un pensiero doppio, complesso e ricco di circoli fino alla ambiguità.

L’uno è unicum infatti in due sensi.

Aristotele - Museo del Louvre
Aristotele – Museo del Louvre

Due sensi strettamente correlati e richiamantesi che sono nel tempo stesso complementari e refrattari reciprocamente. La loro inscindibilità è nel tempo stesso un dramma angoscioso e un esaltante mistero.

Per rendere più agevole l’esposizione di quanto vado dicendo, sarà opportuno chiamare l’uno di cui sopra con il nome usato inizialmente dai filosofi greci: tò heón, ciò che è, l’essente, l’ente, l’evento, – singolare di quel plurale tà heónta per la prima volta usato da Anassimandro per designare le cose del mondo o il mondo tout court .

Alcuni storici della filosofia hanno creduto che uno ente fossero due cose diverse e addirittura tanto estranee da inquadrare la filosofia greca in due correnti, la ontologica e la henologica, ma si tratta di una svista, perché per i greci essi sono esattamente la stessa cosa: la tensione semantica e metafisica che i greci hanno visto dentro questa stessa cosa è giusto ciò che sto per esporre a proposito della intuizione dell’ unicum.

L’ente o la cosa per un greco è sempre un uno, innanzitutto perché esso è in quanto raccoglie e unifica in sé qualcosa che prima non lo era, poi perché il sorgere di ogni ente è una meraviglia e un segno carico di potenza.

L’ente-uno, o l’uno-ente che sia, è insomma un unicum.

Tale è in due sensi, la sua unicità è percepita secondo due prospettive, ma sempre si tratta di una unicità, di una irripetibile qualità, di una caratteristica inconfondibile, di un miracolo, di un segno portentoso, di un dio che si apre.

La prima delle due intuizioni è quella dell’eterno ritorno.

Ciò che è è sempre lo stesso da sempre. Il mondo gira, ma gira così vorticosamente che sta sempre fermo nello stesso punto, sicchè ciò che è è sempre nello stesso stato, ingenerato e immortale, immutabile e senza interruzioni interne.

Unicum perché, dunque, non c’è altro. Unico, solo, assoluto, oltre esso non c’è un due, non c’ è un oltre, tutto è solo e sempre lo stesso medesimo.

È indifferente da dove si comincia in quanto bisogna sempre tornare nello stesso punto, come dice Parmenide. Il girare c’è ma torna nello stessomedesimo, non equivale a un allontanamento bensì a un avvicinamento, anzi non è nemmeno un vero girare, lo è solo illusoriamente per chi non capisce di essere arrivato alla meta da sempre.

La seconda intuizione è quella del mutamento, o della entropia.

Ciò che è è quello che è per una volta sola e mai più. Non appena un evento raggiunge un determinato stato subito lo perde e muta in altro. Quello stato di un istante, in cui ciò che è è consistito nel flusso del cambiamento perenne, è unico egualmente come era unico lo stato di ciò che è assoluto.

L’ente è pur sempre irripetibile e unico secondo entrambe le prospettive.

Ora, il grande intrigo del pensiero greco iniziale, non certo di quello scolastico che non è più in grado di ricordare da dove era venuto, sta proprio nel fatto che esso ammetteva entrambe le versioni.

Il punto di fondo, che l’unico è unico, è condiviso da tutti, per un convincimento che nasce dal profondo della spiritualità greca. Si potrebbe dire che esso appartiene alla religione greca se non rischiassimo un grave fraintendimento. Infatti anche la religione degli dei greci nasce dalla stessa intuizione.

I greci, all’alba della loro filosofia, stanno pensando da tempo che il mondo è un unicum.

Sia che a tale irripetibile miracolo qualitativamente denso si arrivi mediante un rivolgimento continuo sia che in esso le figure siano già da sempre, cosa cambia della sostanza?

Tanto esso è un unicum che si apre dinnanzi che l’uomo che sa deve capire da dove sorga e come. Che senza la meraviglia non comincia la filosofia, è la tesi con cui si avvia la Metafisica di Aristotele.

La natura, il mondo, le cose, sono percepite così ab initio. Senza il senso del prodigio, non si accende il senso del presagio. Senza che si abbia la certezza di essere stati esposti a un presagio e a un segno unicum, non si scatena l’inquietudine della ricerca di che cosa voglia dire.

A partire da che cosa voglia dire che innanzitutto è un uno.

Così la filosofia greca si immette fin dall’inizio nella strada della ricerca di ciò che sta sotto, di ciò che è nascosto, di ciò di cui è segno il segno.

Sia esso una armonia più potente della armonia visibile, sia esso al di là dei molti nomi egualmente lo stesso, – tutto è segno, manifestarsi, darsi, essere: ma nella forma dell’uno. Vale a dire nella forma del sensato, del portatore di un senso che sollecita a farsi inseguire e scoprire.

Giuseppe Lampis


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