a cura di Claudio Widmann
Edizioni MaGi, Roma 2007
Può risultare addirittura banale la constatazione del diffuso senso di profondo disagio esistenziale in cui vive oggi l’uomo occidentale, tormentato da una ‘coscienza infelice’. L’homo sapiens dei nostri giorni sembra aver perso la possibilità di vivere l’esperienza del suo profondo legame inconscio con il cosmo e dunque si sente disorientato in preda al panico, incapace di affrontare l’esperienza della vita, incapace di dare un senso al suo esistere, al suo essere in un universo di cui sembra non saper vivere più il mistero, il numinoso, il fascinans, il tremendum ad esso proprio.
L’uomo occidentale, che per tanti secoli ha lottato per la propria libertà, sentendo che essa è una caratteristica inscindibile dall’umanità stessa, si sente in realtà sempre più privo di libertà e dell’esperienza del panismo, di essere cioè ‘docile fibra dell’universo’, uno con il tutto. Sentendosi assediato in un mondo di cui non riconosce il senso e sentendosi minacciato nella sua più recondita essenza, diviene preda dell’angoscia panica. Gli psichiatri e gli psicologi parlano di un costante aumento delle sindromi fobiche ossessive, di attacchi di panico, di depressioni ansiose.
Il progresso tecnologico, le scoperte scientifiche che avrebbero dovuto illuminare nuovi orizzonti alle coscienze umane sembra abbiano allontanato la possibilità di vivere la pienezza dell’essere, il senso del meraviglioso, lo stupore fonte di ogni scienza. La domanda delle domande, la domanda originale che concerne l’essere: perché l’essere e non il nulla? sembra poter spalancare soltanto un baratro di angoscia nichilista. «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del nulla e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco della nostra epoca», scrive Ernst Junger. Il tratto fondamentale del mondo nichilista è una riduzione spirituale, psichica, che investe ogni campo: la sensazione fondamentale è quella del ridurre e dell’essere ridotto, si esaurisce la sovrabbondanza.Esperienze ineludibili quali il dolore, la sofferenza, le crisi di passaggio di civiltà e di epoca cessano di essere una via di individuazione o di libertà, per i singoli individui come per i popoli, quando sembra essersi perso il senso ultimo, il punto di riferimento, il polo, l’eterno sé.
Per questo dobbiamo constatare come ogni forma terapeutica che voglia essere non semplicemente la soluzione tecnica di un problema di welfare state ma un vero cammino di guarigione e di individuazione non può non tener presente tale polo intorno al quale ruotano le forme, archetipi della vita universale.
Salutiamo dunque con vivo interesse l’opera collettiva dedicata al rito curata da Claudio Widmann, psicoterapeuta e attento studioso della psicologia junghiana, autore di pregevoli pubblicazioni sul simbolismo e sulle problematiche e gli aspetti fondanti dell’esistenza umana. Perché appunto il rito è elemento fondante e fondatore di civiltà, fa dell’accadimento di un attimo, che rischierebbe di scorrere divorato dall’entropia della vita, un evento mitico che appartiene all’eterno.
Ma se una civiltà travolta dalla crisi epocale ha perso il contatto fecondo con i suoi miti, con le forme fondanti e creatrici, rischia di non poter celebrare riti significativi e rigeneratori, che rendano attuali e presentifichino le forme eterne. Si avranno allora soltanto parodie di riti, riti deviati e perversi che sottolineano soltanto la lontananza e forse una nostalgia disperata inconscia e inconsapevole di qualcosa a cui aggrapparsi e che dia una parvenza di senso allo scorrere della vita.
Il volume si apre con un importante e articolato saggio introduttivo di Claudio Widmann: analisi del rito e rito dell’analisi.
Widmann analizza gli aspetti fenomenologici e dinamici del rito: “ Tra il nascere e il morire, a scandire soprattutto i momenti significativi dell’esistenza, si dipana un’interrotta concatenazione di comportamenti accomunati da una singolare fenomenologia, che sono detti rituali. (…) il rito rende significativi momenti della quotidianità e conferisce significato anche a gesti ordinari… Avvolgendo l’individuo in una particolare intensità emotiva e confrontandolo con le dimensioni del transpersonale, il rito raffronta con il mistero”. Ma sottolinea come, a suo parere, l’essenza del rito stia soprattutto nella qualità esperienziale: “Una specifica tonalità affettiva, una singolare modalità di entrare in contatto con forze sovrastanti fanno del rito una singolarità psichica. Al venir meno della sua specificità esperienziale, l’essenza stessa del rito si degrada ed esso decade in ritualismo. Ciò che rimane è ripetizione, stereotipia, routine, abitudine, formalità”.
Passa quindi ad esaminare il rito dell’analisi e i tratti rituali propri di ogni esperienza terapeutica. “L’incontro terapeutico si svolge in un luogo appropriatamente delimitato, che eredita le qualità del themenos rituale. Prevede una scansione regolare di di tempi (…) Si avvale di un linguaggio specifico (…) inoltre viene condotta da figure cui è demandato un ruolo di conoscenza, di orientamento, di salvazione, analogo a quello attribuito a sacerdoti, ministri ed altre figure preposte ad officiare i riti”. Tuttavia, conclude ricordando come la vera sostanza rituale dell’esperienza terapeutica non si situa nella codificazione del setting, ma “nel suo essere luogo che contatta la misteriosa propulsione a procedere lungo la via dell’individuazione”.
La prima parte del volume è dedicata a “Rito e psicologia” e raccoglie le meditazioni di antropologi e studiosi della psiche umana (Vittorino Andreoli, Lucio Pinkus, Erminio Gius, Michel Erlich, Maria Pia Rosati) riguardo al rito.
Lucio Pinkus, in “quale ritualità di fronte al morire oggi” sottolinea come il rito nasca e sia finalizzato a dare un senso alle vicissitudini più importanti della vicenda umana in quanto aggrega le esperienze e le loro variegate emozioni, canalizzandole in un alveo di senso, che risulta creativo ed importante per il processo di individuazione. Il linguaggio simbolico del rito consente di vivere l’eccesso di senso che l’evento stesso contiene. Inoltre il rito che viene trasmesso e si fa tradizione prepara il futuro del gruppo dei partecipanti al rito e produce senso e possibilità trasformative. Come sottolinea l’autore ‘il rito cristiano del morire si presenta come una ricapitolazione del processo di individuazione, con un carattere propriamente alchemico e al tempo stesso come viaggio/passaggio da uno stato (quello intramondano) a un altro (quello celeste)’
L’autore constata tuttavia come i cambiamenti epocali degli ultimi decenni (il più incisivo dei quali il concetto di natura) hanno provocato una crisi dei valori condivisi e dei linguaggi simbolici, condizione necessaria per la celebrazione del rito e per l’avverarsi di quell’eccedenza di senso (il numinosum) da cui scaturisce il potere trasformativo del rito stesso. Ma questi radicali processi trasformativi non hanno prodotto modelli alternativi per affrontare le vicissitudini esistenziali: la quasi totale impossibilità a vivere la dimensione simbolica fa sì che i nuovi ‘riti laici’ non mettono in contatto con il numinoso e con il mistero dell’esistenza. Pinkus si sofferma sul rito di accompagnamento della morte ‘luogo pregnante di esperienza del limite e (…) domanda sul senso della vita’. Nonostante i potenziali archetipici ed esperienziali del rito cristiano della morte non abbiano più l’incisività di un tempo, tuttavia, proprio per le sue radici archetipiche e per la solidarietà con la storia che lo ha caratterizzato, esso conserva un alto valore tradizionale per la continuità e il futuro dell’avventura umana.
Quando manca un’attitudine simbolica che sostenga la ricerca di senso, quando viene meno la consapevolezza che il morire sia il coronamento del processo individuativo e un’esperienza gravida di potenzialità creative e di trascendimento, quando la comunità non riesce a vivere collettivamente dei riti che conservino la loro potenzialità evocativa e di trascendimento, la morte diventa un ‘vizio assurdo’ un evento terrorizzante la cui minaccia incombe e paralizza la vita.
Vittorino Andreoli in “Nuovi riti con la morte” dichiara che quarant’anni di esperienza clinica lo portano a concludere che la psicopatologia, in particolare i comportamenti psichiatrici sono una fenomenologia della morte, da cui la nostra società è terrorizzata. Così, l’ossessione, una delle più diffuse patologie odierne, che può comportare un totale blocco dell’esistenza, è legata al tentativo di controllare ogni cosa, nell’inconfessata speranza di poter controllare l’evento incontrollabile per antonomasia. La dissociazione è un tentativo di eliminare una parte di sé, più dolorosa, per affermarne un’altra migliore. La depressione, soprattutto quella malinconica, è una tragica modalità di morire, di cancellarsi assieme al mondo, perché si è perduto il senso della vita e dunque anche della morte come momento della vita stessa.
Ci sembra particolarmente interessante l’osservazione di Andreoli sulla ‘morte spettacolo’ di cui sembra permeato il tempo presente. Secondo alcune valutazioni statistiche ‘per ogni ora di televisione si consumano mediamente due morti provocate’: ciò comporta che un individuo all’età di diciotto anni ha già assistito a 40mila morti spettacolo, mentre mai o molto raramente ha visto una morte naturale. ‘Non c’è dubbio che oggi questa società ci ha messo di fronte a una ritualità dell’uccidere, sebbene sempre dentro lo spettacolo. Lo dimostrano gli omicidi seriali’. Andreoli analizza in particolare il fenomeno dell’overkilling, una forma di uccisione in cui si continua ad infliggere colpi sulla persona già morta, secondo una ritualità la cui finalità sarebbe un uccidere non la persona, ma la morte stessa. Ugualmente i riti di satanismo non riguarderebbero mai una vittima, che spesso è casuale, ma la morte stessa.
L’articolo di Erminio Gius “Colpa e sofferenza, da una ritualità di espiazione a una ritualità terapeutica” affronta il problema della necessità di un consenso etico delle culture per la costruzione di un nuovo ordine mondiale basato su una nuova etica della com-passione, dell’ ‘empatia’ e della ‘simpatia’ intese come qualificazioni concrete della solidarietà sociale, della reciprocità. La com-passione, secondo il teologo B. Metz, intesa etimologicamente come compartecipazione alla sofferenza altrui, vincolata all’idea di appartenenza comunitaria, è ispiratrice di potenzialità creative e innovative per la comunità universale e indica una progettualità politica che si adoperi alla pace tra i popoli, fondandosi sul riconoscimento della sofferenza dell’umanità. “Poveri, emarginati, extracomunitari, profughi, minoranze linguistiche culturali e religiose, poveri nello spirito, ecc. – scive Gius – presentano il volto della sofferenza universale e chiedono aiuto. Anzi è tutta la società smarrita, sia nella sua opulenza sia nella sua povertà di mezzi per la stessa sopravvivenza, che chiede aiuto, compassione. Questa realtà universale del dolore innocente deve essere riconosciuta come l’unica autorità alla quale devono essere sottomesse la ragione umana, l’etica, le chiese, le religioni e le culture dell’intera umanità. Questa realtà universale del dolore innocente deve essere riconosciuta soprattutto da coloro che per professione si pongono in ascolto dell’altro, in relazione terapeutica. Qui consiste la vera etica, e la stessa tecnica”
Significativamente la prima parte del volume si chiude con l’articolo di Maria Pia Rosati “La ‘Mitodologia’ di Gilbert Durand e l’episteme che salva dal dolore” che vuol essere un riconoscimento dell’importante contributo dell’opera di Gilbert Durand alle scienze psicoantropologiche.
Il mondo moderno che ha creduto di poter trovare certezze ‘provate’, frugando con inquietudine sotto le apparenze, operando un processo di demitologizzazione al fine di cercare l’essenziale oltre le apparenze, oltre le forme, ha dovuto scoprire che oltre il mito, oltre le immagini, oltre le forme c’erano altre immagini e forme, perché per l’appunto le immagini sono esse già la reltà, l’essere, il principio. E il sapere, l’episteme che potrà salvare l’uomo dal ‘male di vivere’ non potrà essere un sapere tecnico altamente specializzato, basato esclusivamente sul metodo delle cosiddette scienze esatte, ma dovrà essere anzitutto una epistemologia del significato, che sappia meditare sul senso che domina ciò che è . Da circa cinquanta anni Gilbert Durand, insieme ai più creativi studiosi di ogni campo del sapere umano del XX sec. (di cui ricordiamo soltanto C. G. Jung, il fisico Pauli, e il filosofo e islamologo H. Corbin, lo storico delle religioni M. Elide) ha promosso una nuova modalità di approccio all’antropologia e un nuovo metodo di studio dell’Unica scienza dell’Uomo. Un metodo che unifichi e non divida i campi del sapere, perché sin dai primordi l’Homo Erectus è già un Homo Symbolicus non solo capace di fabbricare strumenti, ma capace di parola, di pensiero simbolico, bisognoso di cercare il senso della vita e della morte e di trovare immagini e forme di rappresentazione. Durand ha rilevato come sia possibile conciliare attività simbolica, poetica e artistica e metodo scientifico ed ha proposto una ‘mitodologia’ che fosse rifondazione del metodo delle scienze della materia, chiuso, univoco e totalizzante ad opera di una scienza del mito sempre aperta e plurivoca fondata sui grandi miti archetipici che da sempre hanno presieduto alla costruzione di ogni sapere, compreso il sapere scientifico.
La seconda parte del volume è dedicata a Rito e patologia e contiene interessanti articoli su l’archetipo del rito di G. Gastaldo e M. Ottobre, La ritualità nella dimensione autistica di M. Di Renzo, La ritualità nel comportamento violento di M. Valcarenghi, e si chiude con l’articolo di Claudio Widmann su L’ombra del rito.
Vogliamo soffermarci sull’articolo della Valcarenghi, Qui ci si dà la mano, la ritualità nel comportamento violento, perché rivela la profonda umanità e capacità di com-passione dell’autrice che avendo frequentato le prigioni dal 1971, si è coraggiosamente confrontata con i comportamenti rituali violenti, sia collettivi che individuali, appartenenti sia alla storia dei detenuti che alla condotta dell’istituzione carceraria. L’autrice racconta in particolare la sua esperienza come psicoterapeuta nel reparto di isolamento maschile del carcere di Opa a Milano dove vengono rinchiusi i colpevoli di reati ritenuti odiosi dalla popolazione carceraria (tra cui stupratori, pedofili e omicidi seriali), definiti “infami” nel linguaggio carcerario. La Valcarenghi non si limita solo a descrivere le forme di ritualità violenta, la loro valenza simbolica, orientata a rassicurare, propiziare, scongiurare, proteggere o a definire un’appartenenza, perché vuol raccontare come talvolta da queste situazioni possano nascere riti riparatori, talvolta semplicissimi, in grado di contribuire alla trasformazione della personalità all’interno del processo individuativo. La semplice regola di salutarsi all’inizio e al termine della seduta psicoterapeutica chiamandosi con il nome di battesimo, non con il soprannome carcerario (come Mortimer, Bruco, Epatite, o’Barone ecc.), di darsi la mano, di iniziare con 5 minuti di rilassamento per allontanare i pensieri fissi della prigione, la formazione di un cerchio di solidarietà simbolico in cui tutti in silenzio si tengono per mano, che voleva essere un modo di restituire coraggio attraverso la solidarietà, di sentirsi persone la cui storia e il suo possibile futuro avevano senso e valore, diventa poco per volta un rito di appartenenza opposto a quello che la patologia prima e poi il carcere avevano compiuto.
C. Widmann conclude la seconda parte del volume soffermandosi in L’ombra del rito sugli elementi rituali presenti in molte forme della psicopatologia.
Infatti il rito proprio in quanto vuol dare una forma contenuta all’eccesso provocato dall’irruzione di un contenuto inconscio ed archetipico e dare una sorta di tutela nei confronti dell’emergere di contenuti troppo forti necessità di essere una esperienza viva, che vibri di intensità e che possa veicolare nuove forme di identità. Ma proprio per questo “nulla è più antirituale del rito” che pur ricalcando clichè consolidati, esige di essere interpretato in maniera soggettiva, di essere personalizzato, di costituire un unicum esperienziale. Altrimenti il rito si ammala (allora abbiamo “l’ombra del rito”) e muore. Allora “all’orizzonte si prospettano i fantasmi antinomici: convenzione, formalismo, consuetudine, stereotipia o semplice assenza di ritualità. Niente di ciò sa evocare la potenza vivificatrice dell’archetipo, sa alimentare il procedere dell’individuo sulla via dell’individuazione. Esperienze che un tempo furono esemplari, archetipiche e fortemente individuative si riducono a nulla più che ‘ombre vane, fuor che nell’aspetto’.
La terza parte del volume è dedicata a Rito e terapia. Gli articoli di G. Turrini, W. Orrù, G. Borsetti, S. Carta, L. Ravasi Bellocchio, R. Pesino, L. Bruni mostrano come il rito sia luogo esperienziale in cui elementi a forte densità simbolica consentono l’incontro con l’archetipo e le sue potenzialità energetiche. Grazie a queste proprietà il rito è parte costitutiva del processo analitico e di ogni situazione che voglia proporsi come foriera di trasformazione terapeutica, è il setting analitico stesso quale contenitore della relazione, delle dinamiche psicologiche, di tutte le energie psichiche che partecipano al processo terapeutico.
Così Gabriele Borsetti e Annalisa Simoncini colgono il senso più profondo della psicoterapia quale percorso iniziatico, cammino verso l’ignoto, percorso individuativo, sulla sottile linea di confine tra luce e tenebre, conscio ed inconscio, sacro e profano, contingente ed eterno. Paradigma dell’ esperienza analitica può esseree rinvenuto nel rito di iniziazione presente in quasi tutte le culture tradizionali, rito che anticipando simbolicamente il momento della morte ci pone davanti a quel velo del mistero che velando disvela la realtà ultima.