Gavi, una cittadina al confine tra Piemonte e Liguria, conserva un singolare vestigio romanico, la basilica di San Giacomo Maggiore, oggi chiesa parrocchiale. Sulla lunetta del portale maggiore un inquietante Gesù baffuto, dai tratti centroasiatici di un Buddha kusāna, schiaccia l’Avversario, il suo doppio, signore dell’Ade, cioè di questo mondo. Quando Gesù si rivela diventa il suo opposto: l’Avversario precede il Messia poichè le due figure coincidono, ma si manifestano in livelli diversi di realtà. Il Gesù di Gavi porta sul petto dei girali, a significare l’ineluttabilità del compimento ciclico. Sta al centro dei dodici apostoli cioè al centro delle dodici costellazioni zodiacali (gli apostoli, storicamente, non sono dodici). Lo sovrasta una trinità pennuta, i tre volatili sembrano la riscrizione cristiana della ruah, lo «spirito» genesiaco che si libra sulle tenebre iniziali. Non meno sorprendenti i capitelli sopravvissuti all’interno della basilica. Il tema iconografico è costante: un vecchio barbuto sovrasta, reggendendone il dorso, delle creazioni mostruose. Si tratta di creature ibride, in gran parte felini, ma anche grifoni, dalle fauci spalancate. Il vecchio è Chronos, il Tempo, l’Aiōn alessandrino. I mostri epifanie del Tempo che tutto divora e consuma.
Nel mondo latino Saturnus è Aiōn, il Saeculum aureum, immagine imperiale del ritorno all’età dell’oro: ogni anno il suo corpo invecchia nell’inverno, e ridiventa giovane in primavera; plasticamente egli è un essere zoomorfo in continuo cangiamento con il mutare delle stagioni, il suo capo passa dalle fattezze di serpente (freddo), a quelle di leone (caldo), mentre nel rigore, nella furia degli elementi assume le sembianze di un cinghiale. Agli albori del V secolo Marziano Capella, nella sua opera enciclopedica, dipinge «il freddissimo creatore degli dèi» Saturno, cioè il ciclo annuale, come un orrido essere mutante, ora drago, ora leone, ora cinghiale, stigma del mutare delle stagioni: l’Aiōn invecchia, rincorrendo i mesi sino a ridiventare fanciullo. Aiōn è festeggiato nella notte tra il 5 e il 6 gennаio, quando Korē, la Vergine, lo partorisce. Oggi è la festa dei Tre Magi, tre come i tre segmenti in cui è frammentato il tempo: passato, presente e futuro.
Aiōn è un personaggio di tutto rilievo nei Mithraea, i sacelli ellenistici del dio iranico Mithra. Una creazione mostruosa a testa di leone: le ali accennano alla rapidità del suo fluire, le spire del serpente che lo avvolgono alla vicenda ciclica dello Zodiaco, implacabile nello scandire il divenire. I capitelli di Gavi propongono quindi una figurazione del Kronokratōr che è al medesimo tempo Kosmokratōr della presente realtà, egemone delle immutabili leggi che governano i destini dei mondi. È una specie di guardiano delle soglie zodiacali e planetarie attraverso cui l’anima entra ed esce dal mondo (= corpo), così immaginava Celso travisato da Origene.
Una delle più antiche apparizioni di questo personaggio è nella cosmogonia orfica ascritta a Ieronimo ed Ellanico (fr. 54 Kern) secondo la quale dall’unione dell’acqua con la terra sarebbe scaturito un drago alato, leontocefalo e taurocefalo, dal doppio nome di Chronos agēraos («Tempo senza vecchiaia») ed Herakles. Nella fluidità nebbiosa del Caos, Chronos agēraos concepisce un Uovo immenso, da cui fuoriesce un «dio incorporeo» – un essere ibrido con ali d’oro, teste taurine sui fianchi e un serpente svettante sul capo – il cui nome è Prōtogonos, il «Primogenito». La teogonia orfica «comune» o «rapsodica» (fr. 85 Kern), lo chiamerà Phanes; il dio ermafrodita, come lo sono gli uomini che abitano il mondo da lui creato, l’età aurea. Il vecchio e i mostruosi animali della basilica di Gavi riciclano questi motivi in chiave dualistica, più vicina al mondo iranico che non a quello greco.
Spesso nei Mithraea il leontocefalo aionico è nominato come deus Arimanios, cioè Ahriman, personificazione della «tenebra» (tārīgīh) nella cosmogonia zoroastriana, avversario del dio Ohrmazd nel dispiegarsi della grande epopea dualistica iranica. Plutarco, parlando della religione persiana, narra con dovizia di particolari come in essa si celebri un sacrificio ad Ahriman, cioè ad Ade e alle Tenebre. Si cercava di placare con il culto e i sacrifici il diabolico Signore di questo mondo, poiché i presunti «devoti» avevano sperimentato in prima persona la terribile forza del male. Quindi sembra che nella basilica di Gavi sia rimasto indelebile il signum Arimanium che in un’epoca arcaica riteneva lo spazio sacrale l’intermondo fra gli inferi e il cielo.