La menzogna è il male

Giuseppe Lampis

 

Nel periodo che intercorre tra Omero e Esiodo è avvenuto qualcosa di molto importante nell’autorappresentazione dell’umanità.

In Omero gli uomini sono in basso perché sono mortali, creature di un giorno, effimeri, transitori, caratterizzati da fugacità e irrilevanza; si potrebbe dire che sono percepiti sotto la prospettiva del tempo.

In Esiodo sono altrettanto in basso, altrettanto mortali, ma perché sono cattivi, preda della malvagità, della protervia, della ybris. Qui il carattere essenziale è rovesciato rispetto a Omero, essi sono mortali in forza di una causa morale, intrinseca del loro dèmone, e non il contrario, cioè cattivi in quanto mortali. Non sono né la mortalità né la caducità a renderli moralmente depravati; è la loro intrinseca cattiveria a portarli alla morte e all’autodistruzione.

Questa insolita idea che irrompe e rovescia il mondo olimpico è di taglio semitico: con Esiodo si affaccia la giustificazione della morte, la morte è il contrapasso della malvagità e della ribellione dell’uomo, peraltro istigato dalla donna, vaso di ogni danno e dolore.

Sconvolto dalla novità, Esiodo si affanna a ricostruire le gerarchie celesti e umane, annaspa nella spirale del pessimismo, la luminosa perfezione della vita assolutamente in mano agli dèi olimpici è ormai lontana. Le genealogie degli dèi assomigliano già a sillogismi in anticipo di cui si cerca una rigorosa conclusività e per la quale mancano purtroppo le premesse salde.

 

Nello scarto tra l’intuizione di Omero e l’intuizione di Esiodo sta il passo fondamentale verso un’inquietudine ignota; la svolta illustra le premesse necessarie per lo scatenamento di una discussione sul significato dell’uomo per l’uomo.

La creazione di Pandora. Kylix, 470-460 a.C. – Londra – The British Museum

In seno alla religione tradizionale greca si apre una discussione drammatica. Ovvero si apre un contrasto tra diverse tradizioni religiose che provoca domande laceranti alle quali i greci antichi non sentono di potersi sottrarre e nelle quali trascineranno l’intera storia spirituale dell’occidente.

È così che si pongono le premesse per le due più alte creazioni dello spirito greco, la tragedia e la filosofia.

Eraclito e Parmenide non sono pensabili senza l’irruzione di quel dramma e l’emergere di quel problema.

Per la prima volta il problema di dio è pensato come l’altra faccia inscindibile del problema dell’uomo. Chi è veramente dio? Chi è l’uomo? Che rapporto corre tra uomini e dèi, tra morte e immortalità?

Tradotto in termini filosofici, che significa che gli uomini siano mortali? Chi sono veramente gli uomini?

Queste domande vengono pensate come concernenti il sapere vero, il sophón, e di conseguenza le risposte vengono pensate come il compito al quale si dovrà dedicare il ricercatore del sophón, colui che philéei il sophón, il filo–sofo.

Nelle menti filosofiche più alte dell’epoca, il problema, accolto in questa curvatura originale, si riformula inevitabilmente così: che rapporto hanno gli uomini con la giustizia e la verità del mondo?

E tradotto nel linguaggio greco arcaico: in che senso dike e alétheia sono congiunte fino a essere lo stesso potere?

Chiusi oramai nell’orizzonte definito dalla congiunzione di dike e alétheia, i primi grandi tragici e soprattutto i primi due grandi filosofi porranno la domanda fatale al mondo: per quale ragione la menzogna è il male?

Dopo di loro, seguono solo commenti e variazioni. Cominciando dalla loro altezza.

La domanda di origine religiosa e sapienziale sul nesso tra male e menzogna e per converso sul nesso tra bene e verità ha un precedente nello spirito indiano e nello spirito iranico.

Non è difficile rendersene conto e ammetterlo, ma non è questo il punto. Il punto sta nel modo greco di pensare tutto ciò in relazione all’uomo.

Giuseppe Lampis

 


Articoli correlati