Leggiamo il frammento 15 di Eraclito:
«Se non fosse che per Dioniso fanno la processione e cantano l’inno alle parti oscene, la farebbero oltremodo spudorata, ma uno stesso sono Ade e Dioniso per il quale vivono la possessione e danzano freneticamente.»

Se non fosse che lo fanno per Dioniso sarebbe una grave infrazione: Dioniso impedisce che vada così perché esso è Ade. Questo i più non lo capiscono. E in effetti non lo capiamo nemmeno noi.
Per quale ragione mai Ade interno a Dioniso cancella l’infrazione?
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In altri termini, essi (gli uomini massa) sono presi dalla follia e si abbandonano invasati allo sfrenato festeggiamento del fallo senza violare alcun sacro divieto e senza infrangere alcun sacro limite per il fatto che il dio che seguono è anche il dio dei morti.
Ora, per quale motivo Ade rende giusta la follia oscena? Il motivo che unisce morte e osceno trasferendo all’osceno la sacralità e il potere di presa e di suggestione travolgente della morte sfugge alla sensibilità e alla comprensione di noi moderni.
Si potrebbe riflettere sulla potenza arcaica della nudità primordiale sia della grande dea sia del dio suo paredro ma non faremmo altro che riproporre il problema in termini mutati: perché mai la nudità primordiale si trasforma da oscena e irriverente in sacra e avvincente quando mostra di essere il volto della Morte?
Ritengo che la modernità si sia allontanata troppo dalle radici arcaiche della sessualità per permettere una comprensione reale di quel complesso. Probabilmente essa emerge ancora nelle forme deviate e patologiche come un relitto stravolto dal suo contesto effettivo.
La chiave deve stare, se riusciamo a vederla, nel carattere di Ade, il re dell’invisibile. Ciò a cui assistiamo nelle feste dionisiache è in effetti un rovesciamento, dallo spudorato e dall’osceno al venerabile e al sacro. Rovesciamento del normale e del quotidiano, tipico della vera festa. Dunque, una festa della festa, la festa del rovescio. Dioniso è il rovescio, infatti è Ade.
Il rovesciamento è la catastrofe di questo mondo apparente. Ciò che in esso è sconveniente, lì finalmente è pienezza e rapimento. Lì possiamo vivere il mito in presa diretta, per così dire, senza commettere un crimine.
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Ade è Crono, il re dei Titani e anche il re degli eroi chiamati a raccolta per il combattimento finale a fungere da veglianti custodi dei vivi e dei morti. Ade-Crono-Dioniso conduce-conducono la cavalcata del mucchio selvaggio, e l’esercito dei posseduti che lo segue danzando follemente segue in realtà la morte. Essi sono, in quella processione, i morti che nel dio trovano il loro fine.
Il fine è il rovesciamento di questo mondo apparente.

Per i greci tragedia e dramma satiresco si uniscono e completano a vicenda nella festa. L’osceno è sacro: Eraclito, nel passo citato da Clemente, è ironico: «continuino pure così, non capiscono cosa fanno ma fanno bene a farlo, so io perché.»
Qui non si dice soltanto che per rinascere occorre morire ma che occorre rovesciare l’orrore e la ripugnanza per la nudità della morte e esaltarne il potere di rinnovamento. Dal morto spogliato del mondo si leva un nascente nuovo e invincibile.
Capirne la ragione è arduo e per pochi, per i migliori, per gli áristoi.
La vergogna della nudità viene risolta nella nudità del rito: la nudità che nel quotidiano è sconcezza da non guardare e irriverente è invece nel rito altamente positiva, allorché è assunta dal dio, inverata dalla sua forza e imposta come manifestazione del suo centro.
Il rito della ostensione permette la remissione della colpevolezza della nudità. La nudità colpevole viene trasfigurata e risolta nella ostensione e celebrazione del dio.
In Eraclito, frammento 15, emerge che tale soluzione è resa possibile dal fatto che il dio del fallo, o il dio fallo, è identico al dio della morte: il dio della morte è anche il dio della nascita.
Ma perché il dio della morte rende venerabile il fallo, altrimenti osceno, osceno se fosse limitato a mero e unilaterale simbolo della nascita?
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Il nesso di sessualità e morte è annunciato dal rapporto dell’osceno con il terrore: l’osceno introduce in una travolgente esperienza di follia, possessione, soggiacenza e rapimento, tipica del carattere tremendum del sacro. Il sacro è l’irrestibile e il tremendo: una delle manifestazioni più indiscutibili di questa potenza è la sessualità, un’altra è certamente la morte. E entrambe sono connesse. La forza irresistibile e invincibile del sacro si impone al massimo grado nel circolo di sessualità e morte, stante che morte e sessualità sono, già prese ciascuna a sé nella distinzione, forme della sovrana imperiosità del sacro.
La forza del sacro si impone senza nessuna possibilità di resistenza nella sessualità e nella morte. In questa sede, naturalmente, la sessualità non va intesa in senso dimidiato e superficiale, bensì nel senso integrale di spinta a unirsi per generare, nel senso afroditico del risveglio della natura a primavera per intenderci.
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La rivelazione dell’associazione sesso morte mette altresì in luce il rapporto sotteso dell’osceno con il rischio, con la condizione di decadenza e di colpa. L’osceno si accompagna al terrore, e il terrore è il segnale di una colpa.
Il terrore è colpa, e l’osceno è colpa: ambedue appartengono a uno stato di difettosità dell’individuo che va superato.

Alla base del rapporto suddetto sta che nella morte si evidenzia una colpa di fondo e però, nello stesso tempo e proprio per la stessa ragione, questo rapporto fa anche da base alla remissione della colpa.
La sessualità e la morte da un verso si interconnettono nel rischio dell’osceno e della colpa, eppure da un altro verso si interconnettono altresì nella risurrezione e nella liberazione festosa nell’innocenza.
La celebrazione della nudità essenziale generativa, rapiti dal potere irresistibile e transpersonale del dio fallo, rapiti nella follia della possessione (equivalente a una morte rituale), libera e rimette la colpa di esistere e di morire.
La nudità rituale risolve il complesso di osceno colpa vergogna. Ciò che nel quotidiano è osceno viene trasfigurato dall’avvento della verità trascendentale.
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L’elementare, che precede lo stato di colpa, irrompe e possiede. L’uomo comune viene assunto nella sfera del primordiale nel quale non esiste né colpa, né morte, né osceno. Questa sfera è la sfera della morte. La festa della morte rovescia e trasvaluta la vergogna e la colpa. La vergogna e la colpa sono la morte, ma il dio rovescia la vergogna e la colpa e pertanto rovescia la morte. La nudità si trasforma da vergogna insostenibile e annichilente in potere potenziante, da debolezza e caduta in entusiasmo e liberazione.
Bisogna perciò cercare e imboccare la via del rovesciamento. Il dionisismo è la religione del rovesciamento della oscenità della morte.
Il posseduto deve mostrare le vergogne, vi è obbligato, è il suo dovere, egli sta sotto l’imperio del dio che glielo ordina. Egli deve seguire la medesima disposizione alla verità (la nuda e cruda verità ) che fino dai tempi più arcaici impone la confessione dei peccati.
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L’irruzione della verità è l’immortalamento.
Un interessante riscontro riguarda il re Davide, il passo che ce ne parla sta in 2Sm 6, 14 ss (in partic. 20). Qui si narra che il re danza di fronte all’arca dell’alleanza entrata trionfalmente in Gerusalemme lasciandosi addosso appena una corta tunica che non potrebbe coprire le sue vergogne, la moglie Mikal (figlia di Saul) lo vede dalla finestra e lo rimprovera sarcasticamente: ma il re risponde che la vergogna è niente di fronte al dovere che sente di umiliarsi dinanzi al Signore.
(Da quel momento quella donna per punizione diventerà sterile…)

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Il fallo eretto è la sessualità o il suo superamento?
Il culto del fallo richiama il tema della generazione maschile.
Nel contesto delle feste greche dionisiache, la componente femminile è subalterna e funzionale alla risurrezione del fallo.
La nudità maschile itifallica è il simbolo dell’uomo perfetto, del risorto, essa è l’oriente e il sole levante, la colonna del mondo.
Shiva è un altro dio fallo, e Shiva è irritato dall’essere stato chiamato nell’amore. Il linga (fallo) di Shiva afferma un primato e una autosufficienza.
Anche nella Grecia arcaica si era posto il tema del carattere maschile della generazione, della carismatica nascita da maschio. Il tema torna prepotentemente con il mito di Dioniso: in primo luogo, egli nasce dalla «coscia» di Zeus; in secondo luogo, egli muore per uno sbranamento in cui viene risparmiato precisamente il suo immortale fallo.
Nota
Per approfondire cf. Lampis,
- Maschere e demoni (1999), vol. I, pp. 26-28 (cp. 1, c); e pp. 80-85 (cp. 1, e).
- Pòlemos e il nulla (2007): p. 247 (cp. 3), p. 249 (cp. 5), p. 289 (cp. 18).